I nostri laureati sono ciucci, altrove no: grazie all'Italia

Tre laureati su quattro non sanno scrivere. Un disastro che pesa sul futuro del Paese.

Eppure lì dove la scuola funziona bene, in Norvegia soprattutto, utilizzano un metodo di studi italianissimo, quello di Maria Montessori. Paradossi...

di Luciano Trapanese

Seicento professori universitari, uniti in un solo documento: quasi tutti i nostri studenti non sanno scrivere in italiano. Tre su quattro commettono errori da terza elementare.

E c'è chi aggiunge: tanti non sono in grado di capire o di ripetere quello che leggono. E ancora: molti ignorano le più elementari nozioni di geografia.

Una fotografia impietosa. Dei nostri ragazzi, della scuola, della famiglia. In una parola del sistema Paese nel complesso, che vive infelice e inconsapevole il suo sempre più diffuso analfabetismo funzionale.

Ma ridurre tutto a un banale «non si studia più la grammatica», o a un altrettanto superficiale «i giovani non leggono più», è del tutto fuorviante.

C'è una prima domanda: come hanno fatto studenti incapaci di scrivere e comunicare nella loro lingua madre ad arrivare alla laurea?

Nessuna selezione? Tutti promossi sempre e comunque? Evidentemente sì.

C'è molto che non funziona, dunque. E l'errore più grave è dire: sono i ragazzi che non leggono, non si impegnano, non studiano. In sintesi: è colpa loro.

O anche è colpa del '68. Della famiglia. Di internet.

Siamo al centro di una rivoluzione più grande di quella industriale (anche all'epoca un mondo antico venne sostituito da uno nuovo). Le conseguenze pesano su tutto e tutti. Istruzione compresa.

I metodi di insegnamento sono rimasti al palo. E le soluzioni adottate (lavagne elettroniche, slide, lezioni collettive sul nulla), si sono rivelate un vano tentativo di rincorrere una realtà che ancora non si comprende. Hanno avuto una sola conseguenza: l'abbandono completo della nozione (che resta base della conoscenza), in luogo di un indistinta confusa educazione, fintamente innovativa, sicuramente sconclusionata. Con un duplice effetto: insegnare ben poco e annoiare gli studenti. Risultato: quell'appello dei professori universitari.

I ragazzi hanno oggi la possibilità di informarsi su tutto e in modo semplice. Sui loro smartphone ci sono biblioteche infinite. C'è il sapere dell'intera umanità. Nei dettagli anche più minuti. Basterebbe innescare la loro curiosità, suscitare interessi e la voglia di soddisfarli, per ottenere più di quello che c'è.

Ci sono Paesi dove l'evoluzione digitale è più avanzata. In particolare i Paesi nordici. La Norvegia su tutti. Le loro scuole sono considerate le migliori del mondo. E gli studenti i più preparati del pianeta. Eppure non studiano a casa, ma solo in classe. Utilizzando – oltretutto, è un paradosso – un sistema italiano, quello di Maria Montessori (rivisitato, anche in virtù della rivoluzione digitale e reso ancora più efficace grazie alla progettazione di edifici scolastici studiati in funzione di quel metodo).

Basterebbe questo? Forse no, ma è una strada possibile.

Di certo continuare a insistere su una pubblica istruzione che ricalca (nonostante i fallimentari tentativi di innovazione), sistemi del tutto novecenteschi, non può che allargare la faglia dell'analfabetismo funzionale. Che comporta, oltre alla “produzione” di laureati ignoranti, una massificazione verso il basso della cultura, e la dispersione di tantissimi talenti. Un disastro.

Non bastano quindi le pezze a colori, come i corsi di italiano negli atenei o l'insegnamento più attento della grammatica nelle scuole di grado inferiore. C'è un intero sistema che deve essere rimodellato, intorno a un mondo che non è più quello di venti anni fa.

E per farlo si deve partire dai programmi, dalle strutture, dagli insegnanti, dai metodi. Reinventare tutto. Non sarà semplice, ma è necessario. L'analfabetismo funzionale è già una problema serio per una parte consistente degli italiani. Lasciare che l'ignoranza inconsapevole continui a crescere, significa perdere un'altra, ma fondamentale, sfida per il prossimo futuro.