Sono Gesù, vengo da Betlemme e voglio fare il barista

Viaggio tra gli Sprar, dove accoglienza fa rima con integrazione.

Chianche, Petruro e Roccabascerana sono la testimonianza che piccoli paesi dal grande cuore possono offrire un futuro. Alla loro gente e a chi viene da lontano in cerca di aiuto.

Avellino.  

 

 

di Luciano Trapanese

Atif viene da Islamabad, Pakistan. Vuole fare il giornalista. I terroristi gli hanno tagliato due dita. Ha un sorriso dolce che si mescola a occhi pieni di dolore. «Tornerò a casa. Lo spero. Tornerò appena sarà possibile. Il primo giorno di pace».

A Chianche, Petruro e Roccabascerana, nei centri Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), gestiti dalla Caritas di Benevento, dolore e speranza fanno rima con accoglienza. E integrazione. Vera.

Tra la gente del posto e i “beneficiari” (come vengono chiamati i rifugiati), non c'è nessuna contrapposizione. Anzi. Neppure l'ombra di razzismo. O di paura dello straniero.

A Petruro i bambini dei migranti hanno consentito la riapertura dell'asilo. Quel piccolo paese che si affaccia su una splendida vallata, ha ripreso colore e vita.

C'è una foto che racconta tutto. Un'anziana con in braccio uno dei bambini, un piccolo di appena cinque mesi. Lo guarda con la tenerezza della nonna. Nel post pubblicato su Facebook, dice: «Che bello questo bambino, non è neanche troppo nero».

Che un po' fa ridere, ma racconta di uno sguardo che è andato oltre i colori e le razze. Dritto al cuore dei sentimenti.

Siamo andati in giro tra gli Sprar. Un piccolo viaggio, con i ragazzi del Vivaio di Ottopagine. Diventerà una pubblicazione e un documentario. Sarebbe giusto che tutti ci andassero. Per vedere molte cose.

Per toccare con mano quell'umanità dolente ma piena di speranza. E per capire davvero il significato di accoglienza e integrazione. Comprendere fino in fondo la differenza tra uno Sprar e tutti quei centri disseminati un po' ovunque dove i migranti sono ammassati a far nulla o quasi. In attesa che una oscura commissione decida del loro futuro. E sotto inevitabili sguardi ostili. Ovvero: fabbriche di clandestini.

Waheed è un ragazzo di Kabul. In Afghanistan lavorava al ministero degli interni. Aveva collaborato con gli americani. Un peccato che i talebani non gli hanno perdonato. E' scappato prima di essere ucciso. Oggi è un mediatore culturale, si occupa degli altri migranti a Roccabascerana. Parla sette lingue. E' un riferimento per tutti. Anche per gli operatori della Caritas.

«Nessuno ha voglia di lasciare il proprio Paese. Se lo fa è solo perché non ha altre possibilità. Lo fa per salvarsi la vita. E deve essere libero di farlo...»

Accanto a lui c'è un ragazzo somalo. Ha lasciato la sua città devastata dalle guerre tra etnie. E sua moglie, in attesa di un bambino. Non trattiene le lacrime. «Non vedrò mio figlio. Forse non lo vedrò mai».

A Chianche ci sono tante ragazze nigeriane. Molte hanno meno di venti anni. Tutte bellissime. Parlano poco. Non solo perché riservate o timide. Le loro storie sono intrise di troppo dolore. Non riescono a lasciarsi andare neppure con le psicologhe del centro. Ma i loro occhi parlano per loro. Hanno vissuto sofferenze atroci, si vede. Eppure non hanno perso quel sorriso, capace di riempire di luce anche il giorno più grigio.

Studiano italiano, tre ore al giorno. Fanno corsi, teatro. «Un giovane iraqeno – ci spiegano gli operatori, non nascondendo una punta d'orgoglio - è diventato un esperto pizzaiolo. Ora è partito, lavora in Norvegia». Naturalmente in una pizzeria.

Tanti “beneficiari” danno una mano nei paesi. Si occupano della pulizia, del verde pubblico. Altri si impegnano a imparare un mestiere.

C'è poi Gesù, che viene da Betlemme (nella foto in alto il suo amico George). Ma non vuole “salvare” il mondo. O fondare una nuova religione. «Ho un desiderio: lavorare in un bar e preparare cocktail».

Buona fortuna Gesù.