In quella piazza avvelenata c'è tutto il disastro della città

Piazza Castello, un buco inquinato. Il teatro fallito. In pochi metri i ruderi di Avellino.

Dovevano essere simbolo di rinascita. Sono solo macerie. Quella piazza racconta meglio di tutto la decadenza della città. Addossare tutte le colpe a Foti significa ignorare che il male ha radici più profonde. E non basta cambiare amministrazione...

di Luciano Trapanese

Ci sono inchieste che hanno conseguenze dirompenti per una città. Anche perché gli effetti di quelle indagini restano lì, visibili. Un pugno nello stomaco. Una ferita aperta, che deturpa quella che doveva essere una zona simbolo di Avellino, l'inizio della rinascita, il luogo che avrebbe trasformato un piccolo capoluogo di provincia in una enclave della cultura. Almeno in Campania.

Il luogo, lo avrete capito, è piazza Castello. L'indagine è quella che riguarda i rifiuti interrati nel sottosuolo della piazza (con scarti edilizi pieni di amianto). E gli imputati sono Paolo Foti, l'ex sindaco Giuseppe Galasso, i dirigenti comunali Luigi Cicalese, Franco Tizzani, Carlo Tedeschi e Fernando Chiaradonna. Il giudice per le udienze preliminari li ha rinviati a giudizio. Il processo inizierà il 27 settembre. La vicenda è antica, e risale al 2012.

Quella di Piazza Castello è una storia emblematica. Basta spostare lo sguardo di un paio di metri e vedere il teatro Gesualdo. Doveva essere il “tempio” della cultura avellinese. Si avvia verso un mesto fallimento. Un teatro chiuso, la piazza sventrata. Il dubbio di un grave inquinamento. Un processo alle porte.

Sullo sfondo altre vicende giudiziarie (Isochimica, questioni urbanistiche: rio San Francesco, Fenestrelle, Parco Santo Spirito, le torri del centro direzionale. E quella che per la procura è la madre di tutte le indagini: l'Acs Servizi). Una oggettiva difficoltà amministrativa, cantieri che non si riescono a chiudere (tunnel, autostazione, metro leggera), restyling riusciti a dir poco male (piazza Libertà).

Ma è quell'angolo, quella piazza con un buco al centro e un teatrone fallito, la fotografia più realistica di una città alle corde.

Il gioco dello spara a Foti non serve a niente. E' un esercizio di stile che non porta da nessuna parte. L'attuale sindaco avrà le sue colpe. Ma lo sfascio ha radici lontane, profonde. E molti responsabili. Anche per questo immaginare che sia possibile voltare pagina semplicemente sostituendo Foti è un'illusione.

La collezione di disastri, il decadimento generale, lo spopolamento, una consuetudine alla rassegnazione, sono figli legittimi di una lenta, costante e inarrestabile erosione del vivere civile iniziata nel dopo terremoto. E' un'analisi che è già stata fatta. Più volte. Nel mezzo c'è stata la stagione della visione dinunniana (la città giardino), con i suoi pregi e i suoi difetti. Ma è una stagione troncata in modo drammatico (le condizioni di salute dell'ex sindaco), e che ha partorito ulteriori disastri (da città giardino a città cantiere a città del niente).

Nel frattempo è cresciuta quella indecente commistione tra la politica e ambienti molto prossimi all'illegalità, che ha generato altri mostri. Accentuato il crollo.

Ora tra queste macerie, simboleggiate proprio dai resti di piazza Castello e quel mausoleo vuoto che è il Gesualdo, l'opera di ricostruzione diventa ai limiti del possibile. Un'operazione complessa: se non partecipa con passione buona parte della cittadinanza è destinata inevitabilmente a fallire.

Il supposto risveglio del civismo lascerebbe aperti spiragli positivi. Ma è pur vero che l'indifferenza con la quale è stata accolta la liquidazione del teatro (che è stato, nel bene e nel male, l'unico vero motore culturale della città in questi anni), lascia poco spazio all'ottimismo.

Avellino ha bisogno di una ripartenza vera, generale. Prendere di mira Foti e addossargli anche colpe non sue, è inutile. Serve a mascherare macerie ben più profonde.

Nel frattempo, basta andare a piazza Castello. Fermarsi qualche secondo. Guardarsi intorno e osservare. E' la perfetta fotografia della città. Per andare oltre serve uno sforzo comune, una visione di città che superi l'ovvio e sincera passione civile.