Vive da quarant'anni sotto un ponte

La storia di Mario, il guardiano del Fenestrelle

Avellino.  

«Una tempo gli Avellinesi venivano al Fenestrelle a sciacquare i panni e tanti erano quelli che, nei caldi giorni d’estate, facevano persino il bagno. Queste acque, allora, erano limpide e chiare non come adesso che, fra immondizia e rifiuti di ogni tipo, è impossibile guardare il fondo». A parlare è Mario, ottant’anni, dei quali quaranta passati a coltivare un orto poco distante dagli scavi del castello di Avellino, uno sputo di terra sulle sponde del Fenestrelle. Il regno di questo avellinese solitario si trova poco al di sotto del ponte che porta a San Tommaso, in Via Palombi.

La figura di Mario è storta e smilza, la tuta alta fin sopra all’ombelico, i capelli bianchi arruffati e il sorriso sornione. E’ seduto su un muretto e ci guarda con diffidenza.

«Cosa volete?»

Noi, messi un po’ in soggezione dai racconti degli abitanti del posto che ci hanno descritto un anziano irascibile e solitario col vizio della bottiglia, gli comunichiamo le nostre intenzioni. Mario ci guarda, sorride, poi cambia lestamente espressione.

«Parlare? Parlare, qui non c’è niente di cui parlare».

Le espressioni del viso che si accavallano impetuose e disordinate saranno una costante del nostro breve incontro con l’ insolito guardiano del fiume: una figura sfuggevole pronta a scattare, riversarsi e poi tacere, un po’ come le acque del Fenestrelle increspate dal vento. Mario è sublimazione del microcosmo che gli gravita intorno, un ambiente spartano ed essenziale: un tavolaccio di legno, una baracca di lamiera, un paiolo dal quale proviene un odore forte e dolciastro, della legna accatastata in piccoli mucchi. A colpirmi è un arco di gerani rossi di straordinaria bellezza, poco distante dalle riva del fiume, pensare che Mario li abbia piantati e curati tutti da solo mi fa sorridere, la sua è quasi una sfida alla solitudine e al tempo. Il due cani accovacciati a terra, Giorgio e Giorgia, sollevano stancamente le palpebre per capire la ragione della nostra intrusione. Su questa sponda del fiume il tempo scorre placido, assorbito dal verde della vegetazione, cullato dalla carezza lenta ma costante del Fenestrelle.

«Eppure, non è sempre stato così – racconta Mario - quando da queste parti veniva ancora il professore Luongo ( il vecchietto che appariva agli angoli di Avellino con dei cartelli che invitavano i genitori ad occuparsi con più attenzione dei loro figli) , più di trent’anni fa, le sponde del fiume erano molto popolate. Il professore aveva una baracca dove portava i suoi cani. Era un uomo straordinario, dotato di una sensibilità fuori dal comune. Ricordo quando suonava il clarinetto: i cani come ipnotizzati lo seguivano lungo le sponde del fiume e anche io mi fermavo ad ascoltarlo. La musica di Luongo aveva qualcosa di speciale, parlava di terre lontane, era figlia del cuore».

Mario si alza e guarda in direzione del fiume, i suoi muscoli sono tesi e la testa leggermente inclinata verso l’alto. Inizia a muovere le mani ondeggiandole elegantemente come fronde di rami nodosi e il vento che gli scompiglia i capelli compie la trasfigurazione: ora l’uomo del ponte, al quale il tempo non ha lesinato il suo tocco ineluttabile, è di nuovo ragazzo, quando i pomeriggi in riva al Fenestrelle erano allietati dalla musica che si disperdeva fra lo scroscio delle acque e le fronde mosse dalla brezza estiva.

«Il professore – continua - mi invitava spesso a cena e ogni volta era una festa: fra un boccone di caciocavallo e un buon bicchiere di rosso, arrostendo la carne all’aperto, mi spiegava di come Avellino stava cambiando in peggio. Mi diceva che i ragazzi si stavano incattivendo, non avevano rispetto per gli anziani e per una città che si era scordata di loro. Così, con la politica che se ne fotteva, presto Avellino sarebbe diventata un deserto. Che persona che era il professore, sempre paziente, anche quando provava ad insegnarmi a suonare lo strumento e io mi rivelavo uno studente pessimo».

Mario oggi passa la sua vita fra il Centro Storico, dove alcuni amici lo ospitano, soprattutto d’inverno, e le sponde del Fenestrelle, dove ha montato il suo giaciglio di fortuna. Poche coperte sdrucite, coi cani sempre intorno e l’orto da coltivare. Ma senza troppe speranze: «Con quest’acqua – dice Mario - è impossibile far crescere le verdure. Coltivo solo le piante che mi piacciono, i fiori non possono togliermeli né tassarli. Questa parte di città è stata abbandonata: dove prima bisognava chiedere permesso per passare,ora ci sono solo io e questi cani. Hanno avvelenato il fiume, l’aria e la terra, è morto tutto quello che cresceva intorno».

«Perché hai deciso di rimanere?»

«Non lo so. Questo fiume ora è immondizia, mi fa schifo, eppure non riesco ad andar via. Questa è casa mia e non voglio lasciarla per nulla al mondo».

Andrea Fantucchio

(foto su gentile concessione di Pellegrino Tarantino)

 

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