Avellino: il treno per noi s'è fermato a Eboli

Siamo andati a Borgo Ferrovia, per ascoltare gli abitanti su trasporti ed alta capacità

Avellino.  

«I treni della stazione ferroviaria di Avellino, così come tante altre infrastrutture obsolete del Sud Italia, parafrasando un noto romanzo di Carlo Levi, si sono fermati ad Eboli. La stazione di Borgo Ferrovia è emblema di una scelta, in primo luogo politica, che ha deciso di puntare sul trasporto gommato a discapito dei treni. Un sistema che nel tempo si rivelerà fallimentare; se tu neghi ad un territorio la possibilità di legarsi ai nuovi progetti di sviluppo, tradisci il futuro di quel territorio». Pietro Mitrione, ex capostazione, si infervora balzando in piedi. Lo incontriamo a Borgo Ferrovia, proprio dinanzi all'ingresso principale della stazione ferroviaria di Avellino. Dopo la precedente inchiesta sull'Isochimica, nella quale Ottopagine ha incontrato l'ex operaio dello stabilimento dei veleni, Nicola Abrate, siamo ritornati qui per parlare di treni, alta capacità e futuro. O, meglio, per ascoltare cosa il quartiere ne pensa in proposito.

«Da questa stazione – continua Pietro - ci sono stati treni che andavano a Roma, a Milano e che raggiungevano Napoli in meno di settanta minuti. Poi è finito tutto. Oramai questa zona si identifica nella stazione solo per un discorso toponomastico, come si dice, “Abbascio 'a stazione, Abbascio 'a ferrovia”. Prima qui tutto viveva intorno ai treni: era un via via di studenti e pendolari che venivano da ogni angolo della provincia e di tanti avellinesi che andavano verso Napoli, Benevento e Salerno».

Anche se siamo in pieno giorno, quello che ci colpisce è il senso di vuoto e il silenzio opprimente che avvolgono questa porzione di Avellino. Un deserto di prefabbricati e attività commerciali addormentate o boccheggianti, dove i clienti si contano sulla punta delle dita. Una Avellino silenziosa come la stazione che ci osserva muta.

Ci rechiamo nel bar di fronte, dall'altro lato della strada, qui basta nominare la parola treno per far surriscaldare gli animi già provati dal gran caldo.

«Stazione? Ma quale stazione? - Mi dice il barista al di là del bancone – Che senso ha parlare di qualcosa che non esiste. Qua mancano i collegamenti principali, quelli per l'ospedale, occupatevi di cose serie e, sopratutto, concrete».

Il signore baffuto seduto al tavolino di fronte, alzandosi e tirando a fatica i lembi della maglia che a causa del gran caldo gli si è appiccicata addosso, si sente in dovere di rincarare la dose: «Non ci stanno le filovie. La domenica ne passa solo una ogni ora e mezza. Ma noi come 'amma fa a spesa? Come deve venire la gente da fuori?»

«I turisti – si inserisce nuovamente il barista – quando vengono ad Avellino incontrano subito uno spettacolo raccapricciante. I cumuli di macerie e i transennati di Piazza Castello sono una vergogna, un perenne teatro di degrado a cielo aperto».

In strada i pareri rimbalzano all'unanimità di marciapiede in marciapiede, scagliandosi a turno contro l'amministrazione o il politico di turno. Il problema maggiormente sentito è quello del trasporto urbano: c'è chi maledice i pullman che arrivano a singhiozzo, chi la metropolitana leggera che, come il Godot di Beckett , da queste parti stanno aspettando dal 2006. “L'ennesima presa in giro” , la battezzerà causticamente un ex impiegato della posta ferroviaria.

Ci rechiamo all'interno della stazione, Pietro ci fa da guida. Dopo aver rassicurato gli altri impiegati sulle nostre intenzioni iniziamo a camminare lungo i binari silenziosi. Il caldo cocente, le porte delle attività commerciali serrate, l'assenza di vento, sembrano protrarre all'infinito il commiato col quale questo quartiere ha salutato la sua stazione. Arriviamo in un piccolo cortiletto a cielo aperto, adiacente ai binari, dove l'erba incolta cresce altissima.

«Questo – ci spiega Pietro – è un ex giardino. Una volte c'erano anche una voliera e tantissimi fiori. Più avanti si trova un'aria dedicata ai dipendenti per ristorarsi dopo il lavoro. Con un campo da bocce e le panchine. Oggi è tutto abbandonato».

Arriviamo in prossimità dell'unica attività rimasta attiva, quella di Adriano, il barbiere del quartiere.

«No, no, non mi far parlare» – Esclama Adriano guardando il nostro obiettivo

«Perché non vuoi parlare?» - Lo incalza Pietro – tu devi solo ricordare quando era bello.

«Qui – racconta Adriano – c'era un treno che ad inizio anni '90 partiva per Milano. Tantissima gente veniva da fuori e si fermava al bar o in edicola, gli affari funzionavano a meraviglia. Poi hanno deciso di puntare su altro, i pullman rendevano di più e, così, hanno mandato tutti a casa. Pure adesso, che c'è il treno per Benevento alle 18,00, hanno messo un pullman alle 17.45».

Adriano ci mostra dei ritagli di giornale che conserva gelosamente. Parlano della stazione o di interviste nelle quali lui, a più riprese, ha denunciato lo stato delle cose chiedendo alle istituzioni tutela e rispetto.

«Quando verrà il mio turno – sorride amato – almeno avrò qualcosa da sbattere loro in faccia. Io non sono mai rimasto in silenzio!».

Torniamo indietro, scendiamo le scale e camminiamo fino alla rampa di scale che sbuca sul binario 5. E' qui che si conclude questa seconda parte del nostro viaggio a Borgo Ferrovia.

«Qui – ci spiega Pietro – scoibentavano l'amianto dalle carrozze a cielo aperto per poi depositarlo in un piccolo magazzino sui binari. Mentre dall'altro lato c'è una piccola struttura dove si realizzavano le riparazioni dei vagoni. Quelle draisine là potrebbero essere utilizzate per attività che coinvolgano dei turisti. Attività come il velorail ( riadattare Carrelli o mezzi di trasporto a pedali per circolare sulle rotaie dismesse ). Abbiamo chiesto allo sopraintendenza di mettere un vincolo su questa struttura, altrove costruzioni simili vengono utilizzate come musei o sale conferenze. Ma qua si sa le cose vanno molto più lente, io amo ripetere, scherzando ma non tanto, che l'alta capacità e l'alta velocità vanno applicate prima alla politica e alla coscienza generale, solo in un secondo momento alle infrastrutture».

Andrea Fantucchio

(la foto ci è stata gentilmente concessa da Pellegrino Tarantino)