Terremoto, e lo spreco è solo irpino. Ma...

E' un ritornello, ad ogni disastro: non sarà come l'Irpinia.

Ma era un'altra Italia e l'Irpinia c'entra poco. Di esempi ce ne sono tanti. A partire da L'Aquila. E non solo...

Avellino.  

 

di Luciano Trapanese

Spunta sempre l'Irpinia quando si deve parlare di sprechi post terremoto. E' l'esempio principe, irrinunciabile. Non si può parlare di ricostruzione senza rammentare la voragine di miliardi inghiottiti da quella tragedia. Lo hanno fatto sempre. Dopo l'Umbria, le Marche, il Molise, l'Emilia. E anche in questi giorni drammatici. E' una tentazione irrinunciabile. Lo spreco per eccellenza.

Eppure tutti sanno che l'unico post terremoto concluso con la ricostruzione dei paesi distrutti in tempi rapidi e senza la distribuzione a casaccio di miliardi è stato quello del Friuli. Gli altri, tutti gli altri – anche quello Emiliano – si sono contraddistinti per gli stessi, quasi inevitabili errori. Ma l'Irpinia resta l'unico fallimento da segnalare.

Gli errori di quella ricostruzione li conoscono tutti. E l'Irpinia centra, ma poco. Quel devastante terremoto ha raso al suolo decine di comuni irpini (Avellino compresa), parte della Basilicata e paesi della provincia di Salerno. Ma l'area “colpita” si è poi estesa fino a inglobare quasi tutta la Campania. Una regione intera a chiedere soldi per ricostruire anche case che non avevano subito danni (o che addirittura non esistevano). L'altro spreco è arrivato con l'industrializzazione. Con fondi intascati da decine di imprenditori (tantissimi del Nord), che hanno aperto e subito chiuso decine di improbabili insediamenti industriali.

Era un'altra epoca. Piena prima Repubblica. Clientelismo sfrenato. E soldi a pioggia facili facili. Era l'Italia dello spreco come sistema di potere. Era l'Italia che ci ha condotto alla crisi attuale.

Ricordare il terremoto dell'Irpinia decontestualizzando l'epoca è un errore marchiano. E definirlo semplicemente “irpino” è una comodità lessicale che non rende la verità. Sono trascorsi 40 anni, ma certe semplificazioni restano. Immutabili.

Così come tutta la “scaletta” dell'informazione: la descrizione del disastro, i morti, le polemiche sulle case costruite con la sabbia, gli sciacalli, il pericolo che la malavita organizzata si infiltri nella ricostruzione, la necessità di mettere in sicurezza i nostri paesi le nostre città, tutte insediate su una terra traballante e tutte costruite senza rispettare criteri antisismici, a partire dagli edifici pubblici.

E' uno schema che si ripete, costante. Sempre uguale. E all'interno del quale c'è sempre spazio per i molti che dicono la stessa, identica frase: non si ripeta lo spreco del terremoto in Irpinia.

Tutto stucchevole e stancante. Poi non si ripete l'Irpinia, ma si riesce anche a fare peggio (L'Aquila), e se non c'è la camorra a infiltrarsi, ci pensano i “furbetti”, quelli che ridono al telefono dopo il disastro, e già contano i milioni da intascare con i lavori per la ricostruzione.

E' un'Italia a due facce nelle tragedie. Quella dei volontari che si mobilitano. E quella che sui disastri sceglie di speculare. Poi ci sono le chiacchiere. E quelle sono sempre uguali. E tutti a ripetere: costa meno mettere il Paese in sicurezza che ricostruire. Che è una sacrosanta verità (darebbe anche impulso alla nostra edilizia in crisi). Sono tutti d'accordo. Ma passata l'emozione, dopo qualche settimana, tutto ricomincia come prima. A Natale vedremo i servizi speciali sui terremotati nei container. In primavera il premier taglierà il nastro di qualche edificio pubblico ricostruito in tempi record. E poi niente. In attesa del prossimo disastro. Quando tutti saranno pronti a dire: non sarà come l'Irpinia.