Parla l’imprenditore rapinato: Credevo mi uccidessero

La banda dell’Audi ha colpito ad Atripalda. Il racconto di quei drammatici momenti

Atripalda.  

«“Bastardo, abbassa la testa”, quando ho sentito queste parole ho pensato che mi avrebbero ammazzato», Rocco Urciuoli, l’imprenditore rapinato la notte scorsa ad Atripalda, sa che in quegli attimi può succedere di tutto, che una rapina può trasformarsi in una tragedia. Sulla nuca ha ancora il segno della canna della pistola che uno dei rapinatori gli ha premuto contro per quasi due ore.

«Volevano a tutti i costi la combinazione della cassaforte, ma non ho voluto dargliela - continua il 36enne -. Dentro c’era l’incasso della nostra attività di autodemolizioni. Ma loro non si sono fermati, hanno preso una saldatrice in cantina, hanno praticato alcuni punti di saldatura nelle cerniere dello sportello della cassaforte e con un grosso martello sono riusciti ad aprirla. Hanno dato quaranta, forse cinquanta martellate, fortissime, prima di riuscire a squarciarla mentre io nel frattempo cercavo di stare calmo sperando qualcuno sentisse i rumori ed avvertisse i Carabinieri o la Polizia», questo il racconto degli ultimi istanti della rapina nell’abitazione di via Appia (nella foto) di proprietà di Antonio Urciuoli, il papà di Rocco (insieme nel riquadro in alto a destra), un vero e proprio “monumento” nell’attività di autodemolizioni e rottamazione esercitata in contrada Giacchi, non molto distante dalla villetta. 

Ma tutto è cominciato due ore prima: «Sono rincasato intorno all’una e mezza di notte - racconta Rocco -, ero da solo perché mio padre e mia madre hanno preferito fermarsi a dormire in campagna dopo la piccola festa che abbiamo fatto in famiglia per l’onomastico di mio padre. Una mezzoretta dopo ho avvertito alcuni rumori, sono uscito dalla mia camera da letto ma era tutto tranquillo. Dopo qualche minuto ho di nuovo sentito i rumori e appena ho aperto la porta mi sono trovato una pistola puntata alla fronte. Erano in quattro, tutti incappucciati, tre di loro armati di pistola e sicuramente dell’Europa dell’est, quasi certamente Albanesi. Mi hanno spinto a terra e mi hanno chiesto il codice della cassetta di sicurezza dove custodiamo i soldi dell’incasso. Mi sono rifiutato e loro mi hanno mostrato il tamburo di una pistola: c’erano sei proiettili. Mi hanno minacciato, dicendomi che mi avrebbero scaricato tutti i colpi nella testa se non avessi detto qual era la combinazione. Ma non l’ho fatto. Loro non si sono persi d’animo, sono scesi giù al primo piano, dove mio padre conserva qualche attrezzo ed hanno preso la saldatrice. E così hanno aperto la cassaforte. Quanti soldi c’erano? Non saprei dirlo - continua la vittima -, non li avevamo contati, stiamo verificando gli incassi degli ultimi giorni per avere un’idea più precisa. Comunque erano senz’altro professionisti, non si sono arresi e non hanno perso la calma, anche rischiando che potesse arrivare qualcuno da un momento all’altro per via dei rumori fortissimi. Sono anche riusciti a non farsi inquadrare dalle due telecamere di sicurezza (nel riquadro a sinistra). E forse erano anche più di quattro perché qualcuno ha visto allontanarsi di corsa sette, forse otto, persone, verso la Variante. Gli inquirenti sono convinti che si tratti della cosiddetta “banda dell’Audi”, un gruppo di albanesi che usa solo auto Audi (come quella nel riquadro in basso a destra) per compiere rapine dopo aver studiato attentamente le abitudini della vittima. Anche io ne ho una in garage, ma non l’hanno presa forse perché hanno impiegato troppo tempo, quasi due ore, prima di riuscire a prendere i soldi. E non mi faccio troppe illusioni, credo che nessuno ci restituirà i nostri soldi, ma fortunatamente sono vivo e sono contento che in casa ero da solo, non oso immaginare cosa sarebbe accaduto se c’erano anche i miei anziani genitori. Mi meraviglio solo del fatto che nessuno dei vicini ha sentito i rumori, forse avranno avuto paura, chissà…».

Gianluca Roccasecca