Carabiniere ucciso, quando il boss fa a pezzi il pentito

Il delitto di Elio Di Mella, massacrato dalla Nco durante l'evasione di Mario Cuomo, ad Avelino.

Quel giorno in Corte d'Assise quando il capoclan Salvatore Di Maio mise faccia al muro il reo confesso Luigi Maiolino.

Avellino.  

 

di Luciano Trapanese

Nel gabbiotto della Corte d'Assise di Avellino sette esponenti della Nco di Raffaele Cutolo. Tra loro, seduto un po' in disparte, forse per il rispetto che nonostante i lunghi anni di carcere ancora gli riconoscono, c'è Tore o' Guaglione, al secolo Salvatore Di Maio, uno dei più potenti e feroci luogotenenti del boss di Ottaviano. Ha meno di 40 anni. Ma a venti era già il capo indiscusso della camorra nell'Agro Nocerino Sarnese. Una leggenda nera. L'uomo – come venne confermato in aula - “che poteva decidere della vita e della morte di una persona con un semplice gesto della mano”. Sei ergastoli, coinvolto in quindici omicidi, alcuni eccellenti, come il sindaco di Pagani, Marcello Torre e la figlia di Alfonso Lamberti, Simonetta, di appena dieci anni.

Lì, in quell'aula, deve rispondere – con altri imputati - del delitto di Elio Di Mella, un giovane carabiniere freddato con un colpo alla testa nell'assalto al furgone che trasportava il boss Mario Cuomo al tribunale avellinese. Assalto concluso con la fuga del santista di Cutolo.

Qualche udienza prima Di Maio aveva preso la parola per rivolgersi ai cronisti in aula. Sui giornali avevano raccontato di un piccolo – e in fondo insignificante – incidente. I familiari dei detenuti avevano fatto arrivare nel gabbiotto, durante il processo, alcune pizze, provocando la stizzita reazione del presidente della Corte. “Ai giornalisti – aveva detto Tore o Guaglione – vorrei dire che la pizza che ho mangiato non è una margherita, ma una quattro stagioni”. Un modo come un altro per dire “state attenti che vi leggo”. Un avvertimento che qualche anno prima avrebbe avuto anche i suoi effetti. Non in quell'epoca, con la Nco defunta ormai da tempo e tutti, boss e affiliati, morti o dietro le sbarre. Ma quella frase, ha segnalato anche la caratura del personaggio, che sarebbe emersa qualche udienza dopo. In modo clamoroso.

Ad accusare i sette uomini nel gabbiotto, presunti componenti del commando omicida, un collaboratore di giustizia, reo confesso, Luigi Maiolino, proveniente dai clan che operavano nella penisola sorrentina. Ha testimoniato a lungo in aula. Circondato da carabinieri, anche per evitare che incrociasse lo sguardo con gli imputati, che hanno assistito alla sua deposizione ostentando una certa indifferenza, limitandosi a scuotere il capo o a lanciare sorrisi più simili a ghigni. Non Di Maio, lo seguiva con attenzione, ma senza lasciar trasparire alcunchè.

Maiolino aveva fornito la sua dettagliata versione. Tutto di quel drammatico sette ottobre del 1982. Anche delle armi usate per l'assalto al blindato Peugeot. A partire dalla sua colt argentata. E poi le tre auto utilizzate per la liberazione di Cuomo, una Ritmo color nocciola, una Fiesta e una Alfetta. E poi le fasi del blitz. “Due auto hanno bloccato il blindato, una avanti e una dietro. La terza ha affiancato il furgone. Siamo scesi, indossavamo delle parrucche, quella di Di Maio era bionda. Abbiamo immobilizzato due carabinieri. Abbiamo aperto il blindato dopo aver sparato sulla serratura. Dentro c'era Cuomo e Di Mella, che non voleva saperne di lasciar andare il detenuto. Lo abbiamo colpito con il calcio della pistola. Ma non ha mollato. E allora gli hanno sparato un proiettile alla testa, uccidendolo. Poi la fuga. E l'arrivo in un rifugio nel montorese, dove abbiamo stappato lo spumante per la riuscita dell'operazione”.

Nella deposizione Maiolino ha fornito particolari di ogni tipo. Sui suoi presunti rapporti con Di Maio, con gli altri elementi del commando, la pianificazione del blitz, la provenienza delle armi.

Ma restavano alcuni dubbi. In particolare sulle modalità dell'assalto. Il furgone sarebbe stato visto dalle tre auto mentre percorreva la corsia opposta di marcia. Come hanno fatto a raggiungerlo? E c'era qualche discrepanza tra l'entrata e l'uscita dall'autostrada delle tre automobili. Ma lui era un reo confesso. E gli altri imputati, criminali riconosciuti, sembravano credibilmente coinvolti nella liberazione di un esponente così importante della Nco come Mario Cuomo.

A determinare l'esito del processo non sono state le prove, le dichiarazioni del pentito e le testimonianze dei carabinieri superstiti. Ma un confronto, una sorta di faccia a faccia tra Di Maio e Maiolino. Seduti una accanto all'altro e sempre con i carabinieri a tutelare l'incolumità del collaboratore di giustizia.

Il “dialogo” tra i due è durato pochi minuti. Il tempo necessario per capire la differenza tra un capo della malavita e un semplice affiliato. In quel breve scambio la svolta decisiva del processo.

Di Maio: “Hai detto che ero il boss della Nco nell'Agro Nocerino Sarnese. E' vero?

Maiolino: “Certo, lo sanno tutti. Avevi un potere assoluto ed eri temuto e rispettato”.

Di Maio: “E quanti uomini erano disposti a fare tutto quello che comandavo”.

Maiolino: “Centinaia”.

Di Maio: “Gente affidabile, in gamba...”

Maiolino: “Sì, molti li conosco personalmente”.

Di Maio fa una lunga pausa.

Poi aggiunge: “E allora dimmi, con tanta gente che potevo scegliere per fare una cosa complicata come l'evasione di Cuomo, perchè dovevo chiamare uno come te, che a stento conoscevo?”

Maiolino non ha risposto. Ha farfugliato qualcosa, si è inventato che ci voleva anche uno di un'altra zona. Ma in fondo è uscito a pezzi dal quel confronto. Eppure prima di quel momento aveva ostentato sicurezza e una memoria di ferro. Raccontando anche i motivi del suo pentimento (i figli, la famiglia), un episodio che lo aveva messo in cattiva luce proprio con il boss dell'agro nocerino sarnese (aveva molestato la moglie di un amico), condendo le sue dichiarazioni anche con considerazioni ironiche che avevano irritato i familiari degli imputati e costretto la Corte a intervenire.

Di Maio non lo ha guardato neppure per un istante. Nemmeno quando è tornato nel gabbiotto. Non ha risposto ai sorrisi compiaciuti degli altri imputati. Si è seduto ed è rimasto lì, gelido e impassibile.

Il processo si è chiuso qualche udienza dopo. Con una sentenza che all'epoca ha suscitato qualche clamore. La Corte ha condannato per l'omicidio Di Mella solo il pentito. Per gli altri presunti componenti del commando non sono state trovate prove sufficienti e le rivelazioni del collaboratore non sono state ritenute credibili.

Per la cronaca, Mario Cuomo subì qualche mese dopo un attentato a Roma, era il 29 gennaio del 1983. In quell'occasione perse le due gambe e venne di nuovo arrestato. Morì invece il braccio destro di Cutolo, Vincenzo Casillo, uomo chiave della Nco anche nella gestione degli appalti post terremoto in Irpinia, che era seduto accanto a lui in auto. Cuomo venne poi ucciso l'11 ottobre del 1990, a Napoli.

Salvatore Di Maio, dopo trentanni di carcere a Rebibbia, ha ottenuto due anni fa la semilibertà. Un caso rarissimo, visti i sei ergastoli che avrebbe dovuto scontare. Vive a Roma.