Da 24 anni con i carcerati, il racconto del Pastore Turco

Il 23 marzo del 1993 il Pastore Evangelico delle ADI entrò per la prima volta in un carcere...

Benevento.  

Il 23 marzo del 1993 il Pastore Evangelico delle ADI Cesare Turco entra per la prima volta nel carcere di Poggioreale Napoli. 
Da quel giorno sono trascorsi 24 anni di pastorale carceraria, impegno prezioso quanto difficile al servizio dei detenuti. “Il carcere – spiega Turco - compare a tanti come una drammatica discarica dove giungono problemi che nessun altro vuole o può risolvere: dalle tragedie della tossicodipendenza o delle rovine familiari, dai problemi del disordine amministrativo, a quelli dell’immigrazione, della disoccupazione. Cosa si nasconde dietro quelle sbarre?”

Di qui il racconto del Pastore Turco...

“Nel 1992 mentre svolgevo il mio ministero in un comune della provincia di Caserta, per caso leggo un articolo su un giornale locale: “un giovane di vent’anni condannato carcere a vita”. Questa annuncio sveglio in me una grande impressione: considerai a quel ragazzo della mia età e ad una condanna giudiziale che lo vincolava a rimanere per sempre in carcere. Mi fece pensare, perché dicevo a me stesso: “Io sono al principio di un percorso e la mia vita è aperta a qualsiasi prospettiva. Ma per questo giovane il destino è già contrassegnato; non potrà desiderare più nulla nella sua vita”. Così gli ho scrissi subito una lettera chiedendogli se potevo andarlo a trovare. Il 23 marzo del 1993 entrai per la prima volta in un carcere per visitare un detenuto. Varcare la soglia di quel mondo non è stato facile. In quell’occasione ho incontrato tanta gente: persone desiderose di essere accolte, ascoltate, accompagnate. In quegli anni non cerano molti pastori che visitavano i carcerati e quelle persone erano privi di qualunque supporto. Ho visto detenuti disposti al dialogo, nonostante il peso della loro condanna. Aperti alla speranza di una futura libertà e aperti alla ricerca di Dio che si faceva sentire nella loro coscienza. Quando dicevo loro che era Dio a cercare loro, i loro occhi si riempivano di lacrime. A quel tempo non avevo alcun punto di riferimento: come muovermi, cosa dire e cosa fare. Le richieste crescevano, le esigenze aumentavano sempre più. La prima cosa che ho imparato da loro è stato l’ascolto. Poi, in seguito, loro stessi mi chiedevano: “Come puoi tu, da solo, svolgere questa attività? Perché non ti circondi di altre persone?”. Eravamo nel 1993. Così ho cominciato a chiedere aiuto ad alcuni pastori. Insieme abbiamo pensato ad una vera e propria associazione. L’abbiamo chiamata “GMC onlus Gruppo Missionario Carcerario”, perché volevamo creare un clima di famiglia e di unità, nel limite del possibile, all’interno del carcere. Da quell’anno l’impegno è cresciuto e oggi operiamo in circa 35 Istituti di pena del nostro Paese. *Cosa ti spinge ad impegnarti nel tuo servizio?* In quello che sto facendo non c’è nulla di nuovo. Prima di me ci sono stati altri pastori che con molta detenzione hanno svolto questo servizio con fedeltà e passione. I cercarti oggi hanno sono considerati un po’ che i lebbrosi ai tempi di Cristo e le carceri sono come i loro 'lebbrosai' di ieri. Basta vedere dove vengono costruiti: fuori dalle città, come fossero strutture da emarginare, da collocare a distanza. Il carcerato vive oggi una condizione simile a quella che il malato di lebbra viveva nel Medioevo: escluso, rifiutato, isolato. In questi 24 anni di servizio mi sono incontrato tante volte con detenuti che per lunghi periodi non avevano mai potuto dialogare con qualcuno, al di là degli operatori dell’istituzione carceraria. Questo mi spinge a continuare. Adesso sto visitando quelle carceri dove non entra mai nessuno. Noi in Italia abbiamo ben 70 Istituti in cui non entra nessun volontario. Il mio servizio è semplice: oltre ad essere pastore di due chiese evangeliche adì è anche andare in questi luoghi di pena, incontrarmi con la Direzione, e organizzare un primo volontariato. Per noi Pastori Evangelici è un dovere avvicinarsi a queste persone che certo vivono una terribile forma di povertà”.