Confessioni di un alcolista di provincia

La storia di un uomo che ha toccato il fondo, incendiato la sua casa. E ritrovato la strada

Benevento.  

“Mio nonno mi si avvicinò e mi disse “Diegù comm ricett San Tommas, chist è u primm ca tras” e mi diede un bicchiere di plastica con due dita di vino. Mi sentivo onnipotente, finalmente assaporai, insieme a quel liquido aspro, il senso dell’essere diventato grande. Ora non voglio dire che mio nonno fosse un adescatore di bambini, però credo che quel suo gesto familiare e magari tramandatogli di generazione in generazione, potrebbe essere inconsciamente l’inizio di tutto”. Quando ti viene offerto un bicchiere per fare il tuo ingresso nel mondo adulto, assaporarlo e buttarlo giù, come in questo caso, diventa un alibi da tirar fuori al momento giusto, quando non hai scelta, quando sei consapevole di non avere le risposte che cercavi nella tua realtà. E Diego, riservato si, ma consapevole della sua vita, ha continuato a raccontarci che “Abitare in paese, dalle mie parti, vuol dire fare sostanzialmente due cose, o passi l’adolescenza a trovare un modo per andare via, oppure cerchi un modo per farti andare bene quello che hai. Il modo per me e per i miei amici dell’epoca, è sempre stato quello di ritrovarsi il pomeriggio al bar” cominciando, così, a dare un senso alle loro giornate facendo lo “Sbatti e bevi”, all’apparenza un gioco ma, in fondo, una strada da percorrere pericolosa e rischiosa: “Qualche partitella a flipper, poi le carte, ma non per giocare a chissà che gioco, noi ne facevamo uno che avevamo chiamato “Sbatti e bevi”, lo scopo era bere e far bere l’altro, senza grandi regole. Chi sbatteva più forte la carta beveva e chi la sbatteva meno forte beveva il doppio. Si giocava con le birre grandi e fino a quando uno di noi non alzava bandiera bianca, spesso in ginocchio in un bagno, il gioco non poteva finire. Poi c’erano i sabato sera e chi non aveva l’età per guidare, era costretto a passarli in paese e si organizzavano feste dove scorreva alcol a fiumi, rubato dalle riserve dei nostri genitori, quindi puoi immaginare mischiando tutto quel Chivas, Grappa del Nonnino, Borsci e Vov, come ci si combinava ogni volta”.

La quotidianità di adolescenti di un paese di provincia, a metà tra la voglia di divertirsi e il sentirsi già grandi, il non riuscire a guardare oltre quello che si ha e, come in questo caso, farlo degenerare, esasperandolo: “Se fosse rimasto tutto confinato a queste bravate, forse oggi non staremmo parlando. Il problema è che il delirio di onnipotenza che ti suscita il bere, te lo vai ricercando e ricreando ad ogni piccolo problema, o come antidoto alla noia”. Delirio di onnipotenza, piccolo problema, noia ti portano inevitabilmente all’alcool fino a farlo diventare dipendenza: “E’ così che per me è diventata una vera dipendenza. Iniziavo dalla mattina con il caffè corretto a Sambuca, e considera che ne bevevo cinque al giorno, poi l’aperitivo col Campari bitter alle dodici, il vino a pranzo e l’amaro “per digerire”, ma nell’arco della mattinata avevo una bottiglia di grappa nel mobiletto sotto la mia scrivania dell’Ufficio Anagrafe del Comune, con cui, diciamo, interagivo più volte. Tre bottiglie dal lunedi al venerdi e facevo solo due rientri pomeridiani. La sera dopo cena, bevevo fino a stordirmi così tanto che non ho usato il letto per anni, svegliandomi la mattina con la bocca secca e la testa pesante, sempre sul mio divano”.

PER ALTRE STORIE, INCHIESTA, INTERVISTE, APPROFONDIMENTI, REPORTAGE, NEWS E TANTO SPORT,  SCARICA L'APP GRATUITA DI OTTOPAGINE PER APPLE E ANDROID

La vita di Diego era questa, alcool, alcool e ancora alcool, sbattendosi tra il divano e la dispensa o il frigo dove teneva le sue bottiglie. Niente aveva più importanza, nemmeno quel posto di lavoro, a quanto pare una parentesi di troppa lucidità giornaliera. “Un giorno però mi sono svegliato sul divano, sentendo un gran caldo e non riuscivo a respirare. Mi ero addormentato con la sigaretta accesa in mano, il mozzicone era caduto sul tappeto e aveva preso fuoco tutto. Non so neanche io come ne sono uscito. Sta di fatto che ho distrutto mezza casa e ho riportato ustioni per fortuna non gravissime, però giurai che non mi sarei mai più ridotto così. Poi in ospedale a Salerno, ho avuto la fortuna di parlare con un bravo psicologo che mi ha indirizzato ad una comunità gestita da un suo amico, dicendomi però che dovevo andarci da solo, altrimenti non avrei mai avuto la forza e il coraggio per disintossicarmi. Presi un periodo di aspettativa dal lavoro. Feci la valigia treno e decisi di cambiare la mia vita”. E qualche cicatrice di quel giorno Diego ancora ce l’ha, qualcuna anche evidente. Il suo raccontare in maniera quasi del tutto inespressiva, lascia un attimo basiti. Parole quasi ermetiche, apparentemente semplici e ordinarie, sicuramente lasciano intendere dei sentimenti codificati in quella inespressività.

La mia patologia, perché in Comunità ho imparato a chiamarla così, mi ha portato ad allontanare e ad essere allontanato da tutti, non ho mai avuto una storia seria, o un’amicizia che fosse durata più di qualche mese, io pensavo solo a bere e il mio sentirmi solo, bicchiere dopo bicchiere scemava. Ci sono stati molti che hanno provato ad aiutarmi, ma io rispondevo che non avevo nessun problema e che un bicchiere non ha mai ucciso nessuno, anche perché non ho mai preso la patente, quindi non avrei mai corso il rischio di poter guidare ubriaco”.

Il contorno della vita reale, per un alcolista, resta appunto un di più, qualcosa che non c’entra con il suo mondo, con la sua mente, con le sue scelte. E non tutti riescono ad abbandonare quel bicchiere o quella bottiglia. La terapia resta una tappa fondamentale per farli tornare alla realtà, per liberare la loro mente da ciò che l’alcool amplifica e sostenere una disintossicazione non solo, dunque, psicologica, ma anche fisica.

“La prima cosa che mi hanno insegnato durante la terapia è stata che un alcolista smetterà di esserlo solo quando morirà, possiamo essere solo alcolisti che non bevono, beh a me ora sta bene così e la vita che ho è nettamente migliore di qualsiasi sbronza abbia mai avuto. Questo è quello che mi fa sentire uno che ce l’ha fatta” e poi aggiunge: “Oggi sono sempre Diego, vivo al Nord, sempre al Comune, essendomi trasferito con la mobilità e non tocco un goccio da quasi dieci anni. Faccio del volontariato per un’associazione che si occupa della formazione e della socializzazione dei giovani affetti da disturbi mentali, ho conosciuto e frequento una donna a cui ho raccontato tutto e posso dire di essere un uomo nuovo”. Nonostante questo, alla domanda “Ti ha mai sfiorato l’idea di un bicchiere o di ricominciare?”, Diego ha risposto: “Tutti i giorni, ma tengo duro e faccio sempre gli esercizi che facevo in Comunità”.

Annalisa Ucci