Quei musulmani che se ne fregano della camorra

L'imam di San Giuseppe non paga il pizzo. Come gli ambulanti senegalesi. Quel no alla camorra.

Due piccoli esempi. Due mattoni per costruire un argine alla camorra. Il caso dell'Alta Irpinia.

di Luciano Trapanese

Niente da fare. Non si sono piegati alla camorra. Nessun passo indietro. Un “no” secco, ripetuto. Senza tentennamenti. Nonostante le minacce.

L'imam della moschea di San Gennaro Vesuviano e il presidente dell'associazione culturale Baitul Batkat, non si sono piegati al “boss di San Gennaro”, come si faceva chiamare.

Non sono servite le minacce, le aggressioni. Niente. Il criminale è stato denunciato e arrestato. Estorsione aggravata dal metodo mafioso.

Proprio come è accaduto nei primi giorni di gennaio, quando gli ambulanti senegalesi, nel centro di Napoli, hanno ribadito un “no” alla camorra. «Non paghiamo il pizzo». Lì è finita peggio. Una sparatoria. Una bimba ferita e con lei anche uno dei senegalesi.

Due piccoli esempi, di coraggio e determinazione. Di resistenza ai soprusi. Arrivano da chi è più esposto, o meglio: più vulnerabile. Da persone che, forse, non conoscono fino in fondo la pericolosità di quel “no”. O magari, non sono cresciute in una realtà dove per anni è stata imposta una sola legge: chinare la testa e pagare, perché quella è stata ritenuta l'unica possibilità per continuare a far sopravvivere negozi o imprese. Senza mettere a rischio la vita.

Due storie che non sono semplici fatti di cronaca. Assumono in un territorio come quello campano, che in larga parte è devastato dalla camorra e dalla mentalità camorrista, una rilevanza significativa.

Non crediamo sia semplicemente una questione di coraggio. Sarebbe una lettura troppo semplice. E non veritiera. Più probabilmente chi non è cresciuto in un contesto dove il crimine organizzato ha imposto da sempre le sue pretese, riesce con più facilità a dire no. Ma non solo. Quel no arriva da chi ha poco da perdere e spesso non ha familiari che potrebbero subire ritorsioni dal rifiuto di pagare il pizzo.

La prima ipotesi è confortata anche da alcuni episodi, in questo caso molto italiani. Qualche anno fa, la camorra ha tentato di mettere sotto estorsione imprenditori grandi e piccoli di alcune aree dell'Alta Irpinia. Senza successo. Alla richiesta dietro minacce di denaro, sono subito arrivate le denunce. Il motivo? In quelle zone la malavita organizzata non ha mai esercitato la sua pressione. I clan non presidiano il territorio. E la gente di quell'area non ha mai dovuto pagare il pizzo per far andare avanti negozi o imprese.

Un po' come accade nel nord Italia, dove pure camorra, mafia e 'ndrangheta prosperano. Anche lì, e per gli stessi motivi, il racket non è mai stata considerata una opzione praticabile.

Funziona invece nelle aree dove la forza intimidatrice dei clan è consistente, continua, visibile. E dove le vittime temono non solo per se stesse e per le loro attività, ma – evidentemente – anche per i familiari.

Però quel “no”, proprio in quelle zone dove la camorra è forte, pronunciato da musulmani e commercianti senegalesi, può rappresentare un precedente. Ci vuole coraggio, ma è un primo mattone per costruire un argine. E se i no si moltiplicano, e con i no anche gli arresti, lo smacco per chi ritiene di essere padrone di un territorio, indebolisce anche la sua forza intimidatrice.

Non è facile. Ma si può. Se si fa rete, come è accaduto altrove. E se i commercianti o gli imprenditori coraggiosi non vengono poi lasciati soli. In balìa di clan pronti a tutto pur di imporre la propria legge.

Quel no è un piccolo passo. Che può essere un esempio. Lasciarlo lì, nelle brevi di cronaca, senza neppure dargli risalto, è certamente un errore.

Da quel rifiuto si dovrebbe partire, almeno per iniziare a dare risposte diverse alla paura.