Mago Berliario e la regina del fiume, fra amanti e diamanti

La seconda puntata sulla vita del mago campano più famoso e politicamente scorretto di sempre

Sesto appuntamento con le leggende campane. Ecco come Berliario, ricevuto il potere dal diavolo, compì migliaia di malefatte vivendo avventure incredibili

Erano due anni che Pietro Berliario continuava a far impazzire tutti nei dintorni. Soprattutto contadini e giovani donne. Ai primi faceva scherzi di tutti i tipi. Dai tarli fatti crescere a dismisura, all'invasione di locuste che fermava solo dopo aver ricevuto due sacchi di monete d'oro. (Leggi la prima puntata della storia del mago Berliario)

Ma le sue specialità erano le talpe. Quando il mago le richiamava, sbucavano con la testa dal terreno fra le gambe dei cavalli e dei buoi che guidavano gli aratri. Le bestie si imbizzarrivano e spesso perdevano il controllo fino a ribaltarsi.

Tirare fuori i contadini da quel macello era un'impresa. Ma nessuno si era fatto mai male davvero. Qualche contusione, un uomo aveva perso l'uso di una mano, ma restarci secco mai. Pietro sapeva che per istillare la necessaria paura e farsi pagare, le minacce dovevano rimaner tali.

Per quanto riguardava le donne, il suo appetito era insaziabile. Sembrava volesse recuperare tutti gli anni precedenti di astinenza forzata. Quanti rifiuti, nonostante il suo sangue blu. Nemmeno le contadine che avevano sempre gli stivali sporchi di sterco di vacca, lo degnavano di uno sguardo.

Tranne che per borbottare fra loro mentre lo guardavano. Il suo naso sgraziato e la voce gracchiante erano il loro argomento preferito.

Ma, da quando era uscito da quella grotta, nulla era stato più lo stesso. Neanche con le donne.  Si era inventato delle lusinghe leggendarie. Episodi divenuti celebri almeno quanto la sua magia. Storie che le protagoniste si raccontavano accrescendo a dismisura la fama del mago.

La figlia del marchese, parlò di Pietro fino alla morte. Anche dopo essersi sposata la terza volta. Amava i gioielli, e uno schiavo le aveva parlato dei diamanti dell'Africa nera. La ragazza, che era molto viziata, aveva strepitato ed urlato per farsi accontentare dal padre.

“Ma piccola mia, neanche il re in persona può permettersi gioielli simili. E poi l'Africa chi l'ha mai vista?”

Potete immaginare gli occhi della fanciulla quando una sera Pietro si presentò nel chiostro della sua abitazione con un asino che portava un ampio fagotto sulle spalle.


“Scendi Elvira”, le aveva chiesto.

“Andate via, mio padre ha detto che non devo parlarvi”

“Non c'è bisogno che parliamo. Date solo un'occhiata”.

Aveva scoperto parte del carico. Diamanti lucenti come stelle. Elvira era rimasta a bocca spalancata, ma non abbastanza da restare immobile. Aveva sceso le scale in un battibaleno.

“Dove le avete prese?”

“In Africa”

“Nessuno ha mai visto l'Africa”
“Io sono appena tornato. Se volete vi ci porto”
“Quando?”

“Anche stasera”:

E' allora che aveva tirato fuori anche un tappeto persiano. Ghirigori dorati creavano una ragnatela fosforescente sulla tela viola. Se Elvira era rimasta a bocca aperta per i diamanti, quando vide il tappeto srotolarsi da solo e poi dispiegarsi a mezz'aria, dovette trattenersi e non poco per non svenire.

“Anche questo viene dall'Africa. Ci salite?”

Il viaggio nella notte tranquilla era stato meraviglioso. Sentire la brezza notturna scompigliare i capelli. La sensazione di vuoto senza paura allargando le braccia. E Pietro che era uno stupendo conversatore, le raccontava della sue avventure intorno al mondo. Ma l'Africa era lontana.

E così non si cimentarono soltanto in delle ottime conversazioni, ma trovarono modi altrettanto interessanti per ingannare il tempo. Quando arrivarono erano ancora mezzi nudi a scambiarsi effusioni più che spinte. Mentre dall'altra parte del mondo il sole stava già sorgendo. E i bambini che assisterono alla scena, salutarono la coppia con fischi eloquenti.

Ma Pietro, quando si trattava di faccende amorose, sapeva essere anche molto vendicativo. Lo scoprì Antonella, di sicuro all'epoca la donna più bella di Salerno. Morivano tutti appresso a quel fisico sinuoso, e gli occhi di ghiaccio. Ma, di ghiaccio, era anche il cuore.

Ne aveva spezzati tanti fra i suoi spasimanti. E né magie né lusinghe sembravano riuscire a far breccia.  Pietro, che era testardo come un mulo, si era recato ancora una volta nel giardino che la ragazza amava frequentare.

Prima ancora di arrivare si accorse che lei non era sola.

“Siete così bella che il solo incrociare il vostro sguardo mi scuote il cuore e mi divora gli occhi”

Un risolino stupido, più eloquente di mille parole “Marco, voi ...”

Pietro si affacciò e vide delle enormi braccia nerborute e sporche di terra cingere interamente la vita di Antonella. Lei non tentava di sottrarsi a quella presa. Anzi, ricambiava con altrettanto ardore.

“Ah - pensò Pietro - questi sono i nobili sentimenti che cercava”

Preso da una folle gelosia iniziò ad agitare nell'area le mani. Prima un moto lento, impercettibile, poi man mano sempre più rapido. Le dita eseguivano infiniti ricami nell'aria. Il pesco che si trovava alle spalle dei due amanti iniziò ad ondeggiare lievemente. I rami rispondevano alla danza delle braccia del mago. I petali rosa si distaccavano ad uno ad uno dalla pianta creando un vortice che avvolse la coppia. Quando la tempesta floreale terminò, al posto dei due ragazzi c'erano dei salici piangenti.

La vita per Pietro continuava a scorrere fra avventure galanti e scherzi indimenticabili. Fino a quando le acque del Rafastia non iniziarono ad impazzire.

Il torrente, fino ad allora calmo e tranquillo, cominciò a funestare la città di Salerno. Inizialmente qualcuno pensò dipendesse dalle piogge che c'erano state nei giorni precedenti. Ma, quando le alluvioni si furono calmati, le esondazioni non sembravano voler cessare.

Poi, qualcuno iniziò a parlare di un'ombra che si aggirava sulle sponde del torrente. Altri dicevano che si trattava di un mostro, chi di uno spirito dei fiumi. Ma mano le leggende sulla creatura fecero il giro della città e dei paesi attigui. Nessuno si recava più a Salerno, nemmeno i commercianti. E in tanti, avvolti i fagotti, se n'erano andati dalla città.

Pietro non poteva permetterlo. Presto sarebbe rimasto senza lavoro. Fu solo per questo che decise di recarsi al torrente.

All'epoca intorno al Rafastia c’era una piccola radura. Quando giunse la terra era ancora fangosa, per via dell'ultima esondazione. Ma l'anatema che aveva lanciato intorno alle scarpe faceva sì che i suoi passi non affondassero nel terreno. Intorno l'aria era satura di un penetrante puzzo di zolfo.

E il colore dell'acqua era torbido. Per quanto cercasse di metterlo a fuoco, per Pietro era impossibile scorgere il fondale.

L'anello che portava all'indice, iniziò a surriscaldarsi. Lo aveva preso in Galizia, da un mercante che se ne intendeva di magia. Era fatto di pelle di drago inciso con artigli di grifone, il tutto sigillato con un incantesimo di rivelamento noto soltanto agli stregoni dell’antico continente.

Quando iniziava a surriscaldarsi, c’era della magia nei paraggi. Pietro si guardò intorno. Nell’acqua notò un movimento impercettibile. Poi l’anello divenne più caldo.

Ebbe un moto di dolore sull’indice. Prima che un’ombra fuoriuscisse dall’acqua come un proiettile. L’oggetto compì un’ellissi in aria e poi precipitò con un tonfo sordo ai piedi di Pietro. Ossa umane, una tibia e mezzo cranio.

Pietro fece appena in tempo a richiamare un anatema di protezione prima che dall’acqua fuoriuscissero dei coltelli lanciati a tutta velocità. Le lame fendevano l’aria, s’arrestarono a meno di mezzo metro dal suo volto, ricadendo a terra ai suoi piedi.

Una sfera azzurra fosforescente teneva Pietro al sicuro. Ma lo sforzo gli costava non poco, come dimostrava il colore del volto, paonazzo per lo sforzo, e la mascella contratta. Mentre il sudore gli imperlava copiosamente la fronte, lei fece la sua apparizione. Prima il corpo di donna. La pelle chiara, lucente, attraversata dalla luce sembrava fatta di marmo e ghiaccio. I piccoli seni torniti rapirono l’attenzione di Pietro, prima che gli occhi verdi della creatura finissero per incrociare i suoi. Erano talmente profondi che Pietro sentì il suo sguardo trascinato via nei meandri infiniti della mente di lei. Fu come sbirciare in un baratro che dava direttamente sull’infinito.

Vide un mare lontanissimo, e una costa estremamente frastagliata. Dei granchi giocavano fra gli scogli e i bambini raccoglievano conchiglie. Poi la mamma dei tre piccoli, una donna biondissima, diceva che era ora di tornare a casa. Ma uno dei bambini era rimasto indietro. Fissava il mare.

Una testa incorniciata da lunghi capelli castani sbucava all’orizzonte per poi rituffarsi in acqua. Pietro stava guardando attraverso i ricordi della donna del fiume. Il tocco gelido delle sue mani lo risvegliò dal trance.

La barriera difensiva era caduta. Le braccia di lei non erano fatte di materia, ma di acqua che si allungava dal luogo dell’apparizione fino al punto in cui si trovava Pietro e ora lo stavano trascinando verso il fiume. Provò a lanciare un anatema, ma il rumore continuo dell’acqua annullava la sua concentrazione. E lo zolfo contribuiva ad isolare l’area della influenza magica. Pietro ormai era a meno di mezzo metro dall’acqua. Il gorgoglio aumentava. Un sorriso impercettibile di lei, una smorfia sinistra.

Sentì un brivido attraversargli la spina dorsale. Dinanzi ai suoi occhi l’acqua si fece chiara. Riusciva a guardare il fondo. O, forse, era solo un’altra illusione che lei stava creando. Vide un abisso che terminava in un gran ammasso di ossa. Tutti gli uomini che il mostro aveva già soffocato. Chiuse gli occhi, e lo invocò. Sapeva che non avrebbe dovuto farlo, non così presto almeno. Però non c’era altra scelta. Non pensava sarebbe stato necessario, ma lui era l’unico a poterlo salvare.

Non mosse le labbra, l’antica lingua non lo richiedeva. Immediatamente il corpo di Pietro divenne più pesante e la presa di lei si allentò fino a che, a pochi centimetri dall’acqua, si arrestò del tutto.

L’anello di Pietro ricominciò a brillare. Questa volta non era caldo, ma sprigionava decine di sfumature luminose. Stava eseguendo un’invocazione. Il cielo si oscurò, e si sentirono due rombi sordi che squarciarono la quiete. Prima che le ombre giungessero.

Daimon, spiriti. Il potere elementale della natura. Un’energia oscura e primitiva. Pietro sapeva che avrebbe pagato cari i loro servigi, ma ormai si era spinto troppo in là per fermarsi.

In poco tempo le ombre raccolsero numerosi sassi sulla costa, e li fecero levitare fin sulla testa del mostro.

Decine di sassi. Poi come lucciole richiamate dalla luce di una lanterna le pietre divennero sempre di più. Fino a quando il cielo fu oscurato dalla loro ombra.

La creatura guardava immobile ciò che stava accadendo. A Pietro sembrò di scorgere la paura sul suo viso di marmo. Prima che potesse fare alcun che le pietre furono rilasciate e precipitarono in acqua. La forza d’urto generò un’altissima onda che ricoprì la pianura.

Pietro vide il sole oscurarsi ancora ma, prima che l’acqua lo seppellisse, due daimon lo sollevarono portandolo in aria. Il tutto durò pochi minuti. Pietro, fu poggiato al suolo, stremato per la fatica, si lasciò svenire. Quando riaprì gli occhi, i daimon non c’erano più.

 Al posto del mostro e del fiume un’altissima barriera di roccia che terminava in guglie appuntite che sembravano voler bucare il cielo. Sarebbero rimaste lì per molti secoli.

L’opera è ancora oggi conosciuta dagli abitanti del posto come l’acquedotto del diavolo, uno dei monumenti più amati e temuti dai salernitani. Lì sotto, nelle notte di pioggia, si possono ancora udire i daimon che salvarono Pietro dallo spirito del Rafastia e costruirono l’acquedotto.

Andrea Fantucchio