Il vino di mio padre

Viaggio dagli Usa all'Irpinia, sulle tracce del vino

Il primo dei sette racconti di Luigi Di Sibio. Saranno pubblicate con cadenza settimanale ogni domenica.

di Luigi Di Sibio

Quella fu sicuramente la richiesta più strana che avesse ricevuto durante la sua carriera. Certo un tassista incontra tante e tante persone ogni giorno, ed è facile immaginare la molteplice umanità che si sporge oltre lo sportello dell’auto bianca per essere accompagnata nei soliti posti famosi della città, in vie o vicoletti sperduti, dove si trovano il museo trendy, il localino alla moda, il negozietto ricercato.

Un viaggio in quattro ore, andata e ritorno, per l’Irpinia, a caccia di un fantomatico vino, invece, sbaragliava di sicuro tutte le eventuali argomentazioni concorrenti.

Porto di Napoli, Molo Angioino. Era appena attraccata una grossa nave da crociera, di quelle che fanno il giro tra i porti del Mediterraneo, le perle più belle tra Europa, Asia e Africa. Una giovane coppia di americani, riconoscibile più che altro dall’abbigliamento, si era fiondata verso il taxi in testa alla fila.

– Cerchiamo un vino rosso di un paese della provincia di Avellino, lo beveva mio padre. Abbiamo poco tempo, solo quattro ore e poi la nave riparte per Civitavecchia e Genova.

Le parole pronunciate di getto dalla donna, che la moda avrebbe definito poco elegantemente curvy, furono dette in verità in uno strano slang italoamericano, una finta lingua databile almeno a cinquant’anni prima. Cosa che strideva con l’età reale della signora che, a occhio e croce, non superava la trentina. Ma il tassista ci era abituato. Quanti ne aveva sentiti mischiare inglese e italiano, a Napoli proprio, che con i soldati americani della locale base NATO ci aveva campato e ancora ci campava.

Connie era nata negli Stati Uniti ed era la prima volta che metteva piede sul suolo italiano, terra dei suoi genitori. Fino a quel momento aveva vissuto con due idee diverse dell’Italia: una appresa dai libri di studio e di svago, oltre che dal cinema, la sua grande passione; l’altra instillata a piccole dosi dal padre, un imbianchino immigrato nell’hinterland newyorchese, e dalla madre, operaia in una fabbrica di famose scarpe da ginnastica. Il marito, Stefano, era invece di origine greca.

La richiesta di Connie rimase lì, ferma nell’aria. Il tassista stava rimuginando, svolgendo un ballottaggio a mente tra un: – Mi spiace, sono fuori servizio. (che poteva tranquillamente essere tradotto in: se la prendano altri questa grana). E un: – Di preciso dove volete che vi porti?

Ma alla fine se ne uscì fuori con un semplice: – Va bene, salite. Prendo verso l’autostrada e poi mi darete altre indicazioni.

Insomma, il senso dell’avventura aveva preso il sopravvento.

Pattuirono un prezzo forfettario e partirono.

Il marito, durante tutto il viaggio, si limitò a un unico compito, svolto peraltro alla grande, quello di indicare al tassista la destinazione: Frigento.

Sulla nave si era allenato a replicare con esattezza la cadenza e i suoni che aveva sentito pronunciare a casa dei suoceri, dove aveva incominciato ad apprezzare la cucina italiana. Si era da subito innamorato dei ravioli fatti a mano, con la ricotta fresca e il prezzemolo. Ogni volta la suocera usava la stessa espressione: – Mi ha insegnato mia nonna a Frigento.

Le usciva così, nel modo più semplice di questo mondo, una frase detta nella sua lingua madre, anche in risposta a complimenti ricevuti ovviamente in inglese. A quell’espressione, come consuetudine, seguiva un sorry e la traduzione, per far capire al genero ciò che avesse detto. Ai ravioli si alternavano spesso i fusilli e perfino i cavatelli, tutti rigorosamente fatti a mano, cosicché la pasta era diventata una buona occasione anche per conoscere meglio i genitori di colei che sarebbe diventata sua moglie.

Frigento, quindi, fu la destinazione selezionata sul navigatore satellitare e, novanta chilometri dopo, ritrovarono il nome anche sul cartello di benvenuto all’ingresso del paese irpino. Il tassista, però, abituato al clima napoletano, si soffermò soprattutto sul rigo sottostante: “911 metri sul livello del mare”.

Improvvisamente ebbe un brivido di freddo, anche se era giugno e il display dell’auto segnava una temperatura di venti gradi, quindi abbastanza gradevole.

Giunto alle prime abitazioni, esclamò: – E ora che si fa?

La risposta giunse da Connie: – Cerchiamo the mayor, il sindaco.

– Va bene, seguo le istruzioni per il municipio; voi, però, pensate anche a una soluzione alternativa, nel caso, molto probabile, che non lo trovassimo.

Parcheggiò proprio davanti al palazzo e fece scendere i coniugi. Il portone d’ingresso era aperto. S’infilarono e, seguendo le indicazioni per l’ufficio del sindaco, salirono le scale che portavano al piano superiore. Trovarono la stanza da soli, in fondo a un lungo corridoio, senza nemmeno chiedere a un paio di persone incrociate.

Bussarono e, a un fioco cenno di risposta, entrarono. Una donna sulla cinquantina li accolse, allungando la mano in segno di benvenuto.

Si presentò, i due coniugi americani furono contenti e si sentirono fortunati di aver trovato il sindaco in persona. Ebbero solo il dubbio, considerato che the mayor era una donna, se dovessero volgere in qualche modo al femminile la parola “sindaco”; ma, dopo un serrato quanto breve conciliabolo tra loro, decisero di puntare sulla circostanza che conoscevano poco la lingua italiana e che si scusavano in debito anticipo degli errori che avrebbero compiuto.

Spinti dalla fretta, e anche per non sfigurare oltremodo, evitarono giri di parole ed esposero immediatamente alla sindaca la ragione che li aveva portati fin là.

– Stiamo cercando un vino. Un vino che beveva sempre mio padre, quando abitava qui.

La risposta della sindaca fu un’altra domanda, secca: – Bianco o rosso?

– Red, rosso – fu la replica, altrettanto sintetica.

La sindaca annuì con la testa e disse semplicemente: – Seguitemi, ma chiamatemi solo Chiara.

Lungo il corridoio incontrarono un impiegato del comune che usciva da una stanza reggendo un grosso fascio di carte. La sindaca ne approfittò per spiegargli che stava uscendo con i signori e che sarebbe rientrata in poco tempo; se qualcuno l’avesse cercata, avrebbe potuto farlo attendere. Aveva appena ripreso ad andare che, dopo un paio di passi a grandi falcate, si voltò e intimò all’impiegato di fermarsi un attimo. Rivolta ora verso l’americana le domandò: – Quali sono il cognome e il nome di suo padre?

Girò pari pari la risposta avuta all’impiegato, pregandolo di controllare all’anagrafe se ci fosse quel nome e dove fosse la casa natale di quel compaesano emigrato negli Stati Uniti. Aggiunse pure che la risposta gliel’avrebbe dovuta dare con una telefonata sul cellulare, senza aspettare che tornasse. Uscirono, quindi, dal municipio. Davanti al portone c’era ancora il tassista in attesa. Chiara gli disse di aspettare poiché avrebbe provveduto ella stessa a riportare indietro gli americani. Con un clic aprì, quindi, la sua Fiat Panda arancione e fece accomodare i due. Mise in moto e partì.

Nella cantina, Vincenzo, l’anziano vignaiolo, guardava le botti piene di polvere e pensava al tempo che aveva invecchiato sé stesso assieme al suo vino. Anche se era cosciente che il suo aglianico non aveva la forza di diventare un Taurasi docg, ne andava fiero lo stesso. Che diamine, era il suo vino, ottenuto dalla sua vigna, col lavoro suo e della famiglia. Gli bastava guardare quelle botti per essere felice. Scelse una bottiglia coricata su uno scaffale e la guardò: aveva l’etichetta nera, lucida, elegante, disegnata da un artista locale, un giovane che dopo l’accademia stava iniziando a esporre in mostre personali. Girò e rigirò la bottiglia tra le mani, guardando il liquido scuro in controluce. Si soffermò pure sull’etichetta posteriore, dove su fondo bianco luminoso risaltavano dei versi scritti in caratteri dorati:

Se penso alla mia terra

sento i suoi profumi decisi

rimandano al buono

insinuano l’attesa della tavola.

Se penso alla mia terra

vedo le cantine con le botti immobili

casseforti custodi di un tesoro antico

dai cui ricordi rifiorisce l’oro.

Oro rosso, senza dubbio.

I versi, dono di un amico poeta, parlavano di lui. Lo interpretavano appieno. Si sentiva letto nell’anima e questo non gli era mai capitato. Eppure di profonda amicizia il loro rapporto aveva ben poco; in verità, si erano seduti appena qualche volta alla stessa tavola con altri conoscenti comuni. E allora da dove veniva questa affinità? La domanda gli ronzava in testa ogni volta che rileggeva quei versi. Era così cristallina la sua essenza, tanto da essere sbirciata senza remore dal primo che gli si sedesse di fronte?

Quei punti interrogativi lo spinsero inevitabilmente verso la stessa conclusione: era un uomo medio, simile a tanti, quindi facilmente rappresentabile.

Uomo medio. Vincenzo non si dispiaceva di quella definizione; la univa alle tante che gli avevano affibbiato nella vita; alcune positive altre meno. Quella gli stava bene. Il vignaiolo aveva una sola pretesa per sé: fare al meglio quello che lo appassionava.

Da anni, circa una ventina, la sua passione era il vino. E adesso era anche la sua unica attività. Era ormai in pensione, dopo aver lasciato l’insegnamento. Si era diplomato presso il locale istituto magistrale e, fin da giovane, aveva insegnato alle scuole elementari di mezza Italia. Aveva lasciato quando già doveva chiamare ‘primaria’ la sua scuola.

Ora gli piaceva trasfondere l’esperienza scolastica nella vigna e nella cantina appena fuori dal paese.

Quando i tre ospiti entrarono nella sua cantina, Vincenzo esclamò:

– Ciao Chiara, entrate pure.

– Buongiorno Vincenzo, sono con Connie e Stefano, due amici americani, e penso tu possa soddisfare la loro richiesta.

– Spero tanto di poter essere utile.

Connie espose ancora una volta il suo desiderio: – Stiamo cercando un vino, lo beveva mio padre, quando abitava qui.

La donna era sempre più consapevole del suo scarso italiano e che gli interlocutori avevano bisogno di un paio di secondi per afferrare bene il concetto espresso.

– So solo che è un rosso. Lo producevano in famiglia. Mio padre mi diceva che così facevano tutti in paese.

Vincenzo si fece dire quale fosse il nome del padre. Restò qualche secondo a pensare e poi disse: – Sì, sì… me lo ricordo. La famiglia coltivava una vigna a Salacòne, una zona con la migliore esposizione per produrre un buon vino. Eravamo vicini con la terra perché anche io ho lì la vigna. Proprio stamattina ci sono stato per controllare le viti.

Poi un lampo attraversò la sua mente e illuminò i suoi occhi: – Avete mai assaggiato il vino che cercate?

– Una volta sola, durante un pranzo di Natale a casa dei miei suoceri – rispose Stefano, che fino ad allora era restato in silenzio.

– Sì, è vero – confermò la moglie – un cugino di mio padre aveva portato una bottiglia dal paese.

Vincenzo, senza ascoltare altro, si allontanò per tornare dopo un paio di minuti con due calici pieni di un nettare rosso scuro. Li porse ai coniugi statunitensi e disse: – Assaggiatelo.

I due sorseggiarono con l’attenzione che si mette quando si ha a che fare con un tesoro. Si guardarono negli occhi dopo il primo sorso. Fu Connie a rompere il silenzio irreale che si era creato; lo fece con un pianto prima dolce poi dirotto. Solo infine esplose la sua gioia, dicendo: – È proprio questo il vino che cerco. Me lo ricordo. È il vino di mio padre!

Allora Vincenzo prese una bottiglia etichettata da poco, si avvicinò alla donna e gliela diede. A quel gesto cordiale aggiunse: – Prendete, è un mio regalo per voi!

La donna e il marito insistettero, tentando invano di far recedere Vincenzo dalla volontà di donare quel vino. Avevano dei dollari in mano. Avrebbero voluto comprarla, ma fu tutto inutile.

L’anziano proprietario della cantina prese pure un oggetto da un cassetto lì nei pressi: – Prendete anche questo, è un cavaturaccioli, altrimenti come farete ad aprire la bottiglia?

I coniugi, commossi da tanta spontaneità, ringraziarono in italiano e in inglese in una maniera tanto eccessiva che dovette intervenire la sindaca per chiudere la cosa.

Quando i tre visitatori furono in procinto di salutare e uscire, Vincenzo, rivolgendosi più che altro a Chiara, disse: – Mi sono ricordato. La casa dove abitava la loro famiglia è in via Speranzella, di fronte all’avvocato.

– Grazie, volevo proprio accompagnarli a vedere l’abitazione dove è cresciuto il padre; stavo aspettando notizie da Mario, l’impiegato dell’ufficio anagrafe.

Un’occhiata all’orologio e Chiara si rese conto che il tempo stava volando in compagnia di Vincenzo, per cui invitò la coppia a montare in auto; mise in moto e ripartì verso il centro abitato.

– Prima di ricondurvi al taxi, vi voglio mostrare una cosa – aggiunse con una misteriosa malizia.

Quando furono giunti in pieno centro, imboccò una stradina stretta in discesa; una targa indicava: Via Speranzella.

 

Dopo circa duecento metri, arrestò la macchina e invitò i passeggeri a scendere. Mostrò sulla destra un fabbricato modesto, composto da un piano terra e primo piano, e poi esclamò: – Questa è la casa di tuo padre. The house of your father –, aggiunse facendo ricorso al suo inglese scolastico.

Per la seconda volta in pochi minuti le lacrime scorsero sul viso di Connie. Era troppa l’emozione. Non si aspettava di ritrovare anche quel luogo. Lei e Stefano si misero a scattare fotografie col cellulare. Sarebbe stato uno dei souvenir più importanti della loro crociera.

Rimontati in auto con destinazione il municipio, Chiara indicò lungo il percorso anche alcuni antichi monumenti del paese. Esaltando la storia e l’arte di Frigento.

Quando furono al taxi, Chiara salutò i due, invitandoli a ritornare con maggiore calma, magari per qualche giorno. Aggiunse: – Se deciderete di ritornare, venitemi a cercare, non in municipio, però, la prossima primavera scadrà il mio mandato e non sarò più sindaco. Non fatevi problemi, mi farà piacere avervi ospiti almeno a pranzo a casa mia.

Infine si salutarono.

Il viaggio di ritorno sembrò velocissimo, come capita sempre. Il tassista non spiccicò una parola, anche perché i passeggeri non smisero un secondo di parlare animatamente e nella lingua in cui si esprimevano meglio.

Quando giunsero al molo pagarono la cifra pattuita e s’incamminarono verso la maestosa nave da crociera ormeggiata là vicino. Ma non si diressero alla scaletta, si avvicinarono invece al bordo della banchina, giusto in prossimità del mare. Fu qua che Connie stappò la bottiglia di vino e ne versò per intero il contenuto nell’acqua.

Il tassista aveva seguito da lontano tutta la scena attraverso lo specchietto retrovisore. Qualcosa non gli tornava. Si affrettò a mettere le banconote in tasca e, perplesso, raggiunse i due per sapere se per caso avessero sbagliato vino, paese, storia… Non capiva.

Ancora una volta con le lacrime agli occhi, la donna rivelò la ragione del suo gesto: – Mio padre ne parlava ogni volta che eravamo a tavola, ma non gli è mai riuscito di tornare al suo paese per gustare quel vino aspro, forse poco raffinato, poco curato, ma che per lui era il nettare più gustoso del mondo. Avrebbe voluto tornare per berlo qui, in Italia, a casa sua. Era il vino della sua infanzia. Era come un libro dei suoi ricordi e della sua malinconia. È morto in mare due anni fa, ma ora finalmente ha bevuto di nuovo il suo vino!