Baby boss psicopatici: tra Isis, donne, social e cocaina

Napoli come Gotham City, una città avvolta nell'ombra. E i suoi spietati microcriminali.

Simone Di Meo racconta in un romanzo il mondo dei baby boss, le loro storie, la loro ferocia. La droga, le donne, la suggestione dell'Isis e la guerra strada per strada al vecchio potere criminale.

di Luciano Trapanese

«Il sottobosco di Napoli è popolato di creature calate nelle tenebre. Non capire che queste ombre stanno annientando la città è peggio di un errore. Continuare a raccontare “la rinascita della città del sole”, ignorando quello che accade nei vicoli, nei quartieri, nel centro come in periferia, non ci porterà lontano. Basta fare un giro nel centro storico, non ci vuole molto. La Napoli che racconta De Magistris si estende per non più di due chilometri quadrati. Il resto è un'altra storia...»

Ed è una storia nera, fatta di boss ragazzini, cocaina, stese e mitra, violenza gratuita, guerra rione per rione, strada per strada. E' la storia raccontata da Simone Di Meo, giornalista di Panorama e de “Il Giornale”, in “Gotham City – Viaggio segreto nella camorra dei bambini” (Ed. True Piemme). Un libro che si basa su reportage, inchieste giornalistiche e atti processuali. Un romanzo «ad altissimo tasso di realismo”. Fotografa una metropoli crudele e i suoi ragazzini killer: figli di una camorra fatta a pezzi dalle inchieste e animati da una sete di potere che non rispetta codici e strategie. Corrono sparando verso un futuro che non c'è.

Perché hai deciso di scrivere un romanzo sui baby boss napoletani?

«L'idea è maturata in circostanze particolari. Ero dal barbiere, è entrato un ragazzo e ha detto a uno dei presenti “hanno sparato al Pipistrello”. Ho finto disinteresse, mentre in realtà origliavo. Poi ho scoperto che il Pipistrello, un giovane camorrista, non era stato ferito. Era riuscito a scampare all'agguato. Ho fatto delle ricerche e davanti a me si è spalancato un mondo surreale. Il pipistrello è l'evidente richiamo a Batman, e quella città delle ombre non poteva che suggerirmi Gotham City».

Chi sono i baby boss?

«Camorristi in erba e fatti di erba. Non hanno nessuna educazione criminale. Sono violenti, spregiudicati, non rispettano codici e gerarchie. Si muovono senza logica e con atteggiamenti che sono del tutto diversi da quelli della camorra tradizionale».

In cosa è diverso il tuo libro da quello di Saviano sulla paranza dei bambini?

«L'argomento è simile. Ho letto il libro di Saviano. Lui si concentra soprattutto su ragazzini di dodici, tredici anni che si avvicinano al crimine. Nel mio romanzo mi occupo di una fascia d'età diversa, intorno ai venti anni, quando quei ragazzini sono diventati o sperano di diventare dei boss».

Personaggi tipo Emanuele Sibillo, ucciso a 21 anni quando era ormai diventato un capoclan...

«Sì, certo. Su Sibillo c'è stata anche tutta una agiografia post mortem. E' diventato l'anello di congiunzione tra i giovani emergenti e i vecchi padroni della camorra napoletana. Ho parlato con molti investigatori. Tutti concordano su un punto: aveva tutte le caratteristiche per diventare un grande capo della camorra. Quando dico “grande” non voglio certo mitizzare questi personaggi. Sono psicopatici, con evidenti limiti intellettivi, cocainomani e incapaci di reggere una qualsiasi discussione».

Molti di loro utilizzano i social network in modo sconsiderato per un camorrista...

«I loro profili Facebook sono stati di grande ispirazione. Raccontano in qualche modo anche il loro sogno di dare la scalata al potere camorrista. In fondo sono dei post millennials. Non hanno alcuna educazione criminale. Per la camorra tradizionale l'abito perfetto è il silenzio. Questi baby boss si lasciano invece affascinare dal luccichìo dei social. Postano foto con pistole, bottini di rapine».

Cosa pensano di loro i vecchi camorristi?

«Ho sentito un vecchio capoclan. Mi diceva che le stese e la violenza ottusa, attirano solo l'attenzione. Sono un guaio. Ai suoi tempi questi baby boss sarebbero finiti in un pilone di cemento».

Come si giustifica l'ascesa di questi giovanissimi criminali?

«E' il risultato di decine di inchieste che hanno decimato i vecchi clan. Le cosche si sono polverizzate, lasciando spazio a questi cani sciolti...»

Anche i Casalesi hanno subito centinaia di arresti, quasi tutti i vertici sono in cella, molti sono diventati collaboratori di giustizia. Eppure lì non c'è mai stato spazio per i baby boss...

«Lì c'è una impostazione piramidale del clan. Più di tipo mafioso. Ma non si può escludere che anche nel Casertano si verifichi prima o poi una situazione come quella che caratterizza Napoli. Ci vorrà un po' di tempo, poi anche lì potrebbe esplodere uno scontro generazionale...»

Com'è oggi il quadro della camorra napoletana?

«C'è estrema fluidità. Parafrasando Bauman, siamo di fronte a una onorata società liquida. I Giuliano, i Misso, i Mazzarella sono stati scompaginati. Tanti clan polverizzati. Ed è in questo contesto che è stata possibile la crescita di personalità come quelle di Emanuele Sibillo o Walter Mallo. Nel libro racconto proprio questo. E' un romanzo di de-formazione, che narra una deriva de-generazionale».

Com'è il baby boss tipo?

«Si somigliano tutti. E durano il tempo di un campionato di calcio. Poi finiscono ammazzati o in galera. Sono tutti incapaci di formulare un ragionamento. Mancano le basi minime dell'agire criminale. Ignorano la strategia, in nome della violenza più brutale. Sono cocainomani e amano esibire le loro conquiste femminili come uno status symbol».

Che ruolo hanno le ragazze rispetto a questi gruppi?

«Fondamentale. Ci sono spesso loro dietro i baby killer. E' una novità assoluta nel mondo della camorra. Le donne hanno sì avuto ruoli di primo piano, ma se erano mogli o mamme dei boss. Ora invece sono le fidanzatine a orientare spesso le scelte dei giovani capiclan. Nel mio romanzo è il personaggio di Elenuccia a rappresentare questo modo di agire. E si chiama Elena non a caso, perché proprio come Elena di Troia innescherà una guerra tra bande».

E' cambiata nel tempo anche la musica di riferimento. Si è passati dai neomelodici al rap di periferia...

«Sì, c'è stata una evoluzione nei gusti. Il rap napoletano ha una valenza sociologica rilevante. Si rifà molto al gangsta rap americano e ha influenzato anche la scena tipica delle banlieu marsigliesi».

Le differenze sostanziali con i vecchi boss...

«Sono loro stessi a uccidere, spacciare, riscuotere il racket. Cosa che non sarebbe mai accaduta a Paolo Di Lauro o a Edoardo Contini. Ma del resto molto spesso più che clan questi ragazzi sono a capo di bande composte da cinque, sei elementi. Tanto per fare un paragone i Di Lauro erano duecento, i Contini 150 e se torniamo indietro alla Nco di Cutolo erano più di un migliaio. Sono cose profondamente diverse...»

In questo momento com'è la situazione?

«E' il centro storico di Napoli il teatro dello scontro, la terra di conquista. Quartieri Spagnoli, Rione Sanità. Si uccidono per diventare padroni assoluti di quel territorio».

Come si evolverà questo scontro de-generazionale?

«Per ora il conflitto è destinato a crescere. Poi potrebbe finire come negli anni '70/'80, un clan più grande prende il sopravvento – all'epoca la Nco e dopo qualche anno la Nuova Famiglia -, e crea una cupola. Più potente e che evita i sanguinosi conflitti interni. Ma c'è anche un'altra possibilità, che le bande restino tante e si crei una situazione sudamericana, con piccole gang che si dividono pezzi di territorio».

Due eventualità comunque letali per il futuro di Napoli...

«Certo scegliere tra una criminalità potente, magari meno violenta, ma più opprimente e pervasiva, capace di incidere anche su scelte politiche e amministrative e una meno influente, ma aggressiva, violenta, una sorta di microcriminalità organizzata, è impossibile. Sono due strade che portano allo stesso disastro».

Come è possibile sradicare tutto questo?

«Bisognerebbe svuotare alcune aree, imporre un regime di polizia. Fare pulizia totale e ripristinare la legalità. Inquirenti e forze dell'ordine hanno già dimostrato che se vogliono ci riescono. Lo dimostra lo smantellamento dei Di Lauro e dei Casalesi. Erano potenti e padroni incontrastati del territorio. Eppure sono stati fatti a pezzi».

Una volta l'immaginario del boss tradizionale era il Padrino, e oggi?

«Le simbologie cambiano. I baby boss sono stati spesso accostati ai terroristi dell'Isis. E a ragione. Subiscono quel tipo di suggestione. Proprio come gli adepti dello Stato islamico, i nuovi camorristi si lasciano crescere la barba, vestono con camicioni un po' orientaleggianti. Non ne sposano certo l'ideologia, ma sono affascinati dal terrore che provocano, dalla spietatezza e dalla feroce determinazione, che supera anche la paura di essere uccisi».

E' un modo anche per riconoscersi, un segno di appartenenza...

«Sì, è sempre stato così. Il capo dei Giuliano vestiva sempre in modo elegante. E tutti gli affiliati lo imitavano. Così anche alle undici di mattina nei quartieri si vedeva gente che indossava un gessato. I Contini avevano tutti un Rolex, i Misso un determinato tatuaggio. Erano tutti codici identificativi».