Mio marito mi picchia e mi umilia, ma non riesco a lasciarlo

Decine di storie, raccolte dal Centro Donna di Salerno. Quelle straniere segregate dai mariti.

La storia della ragazzina stuprata dal branco, ma che non ha avuto la forza di denunciare. E l'esempio di Filomena Lamberti: devastata dall'acido lanciato dal marito che ora si sente finalmente libera.

di Luciano Trapanese

Quel telefono che squilla. E che resta muto, più volte. Un silenzio pieno di paura, di disperazione, di ansia. E' il silenzio di una donna che vorrebbe denunciare, raccontare il suo dramma. Ma ogni volta si ferma, la voce si strozza in gola e riaggancia.

«Mi chiama da giorni – racconta Pina Mossuto, del Centro Donna di Salerno -. Prima o poi romperà gli indugi. Spero. Telefonate così ne arrivano tante».

E sono telefonate che raccontano senza parole drammi domestici. Le violenze in famiglia. Che hanno tante sfumature. Tante vittime. Storie che si ripetono. Uguali e profondamente diverse.

«Queste vittime non si sentono tutelate. Se vanno dalle forze dell'ordine e dichiarano di essere state minacciate, sa qual è la risposta: “Signora, se suo marito non ha usato violenza non possiamo far nulla”. Anche se la minaccia è di morte. Anche se quelle donne portano negli occhi il terrore puro. Mi chiedo cosa aspettino, che vengano prima mandate in ospedale o uccise?».

Il Centro Donna è un punto di riferimento da decenni. «E posso dire con certezza – continua Mossuto -, che la situazione è peggiorata. Rispetto agli anni '70 c'è molta più violenza nelle case, e non solo».

«Qualche giorno fa mi ha contattato una moglie. Era disperata, stanca di subire violenze, abusi, minacce continue. Ma mi ha detto che proprio non poteva denunciare suo marito. E per tanti motivi: lui avrebbe perso il lavoro, ed è l'unico in famiglia ad avere uno stipendio. La reazione sarebbe stata rabbiosa, aveva paura solo a immaginarla. E poi avrebbe dovuto lasciare l'abitazione, non vedere i suoi figli. E vivere per alcuni mesi in un centro di accoglienza. E dopo? Senza lavoro, senza casa, senza famiglia, cosa ne sarebbe stato di lei?».

Questo capita alle italiane. Per le straniere – spesso giovani – che convivono con nostri connazionali, la situazione è anche peggiore.

«Ne abbiamo viste tante. Vengono qui e sono piene di lividi, disperate. Ma non possono – continua Pina Mossuto - neppure denunciare il loro aguzzino, perché sono irregolari, non hanno il permesso di soggiorno. Sono davvero schiave. Prigioniere di questo sistema».

Ma c'è anche chi trova la forza di andare oltre.

«Sì, certo, capita. Ricordo una ragazza sudamericana. Era stanca di vivere qui con un ex poliziotto molto più grande di lei. Voleva tornare a casa, ma non aveva soldi. E lui non aveva nessuna intenzione di lasciarla andare. E' scappata, si è rifugiata in un canile. Lui l'ha raggiunta, per sfuggire all'uomo si è chiusa in una gabbia per animali. E lì è rimasta. Fino a quando non è arrivata la polizia. Sono stata chiamata. Lei è uscita dalla gabbia. Ho parlato con l'uomo: gli ho detto di vergognarsi e di consentire a quella ragazza di tornare nella sua casa».

La paura è la costante. Paura delle reazioni del compagno o marito. Paura anche delle conseguenze: spesso sono donne che non lavorano, non sono indipendenti. Senza contare che a volte, dopo le violenze, l'aguzzino fa di tutto per farsi perdonare. Ma lo sanno tutti, lui e lei in particolare, che è solo scena. Che l'incubo non è finito».

«Negli anni 70' – aggiunge Pina Mossutto – a Salerno c'erano tante fabbriche che impiegavano migliaia di donne, le Cotoniere, la Marzotto, la Landis. Chi voleva troncare un matrimonio non aveva paura. O almeno: non aveva paura del futuro. Oggi la paura è in ogni dove. Non risparmia neppure le ragazzine. Purtroppo».

«Lo scorso anno una minorenne ci ha raccontato di essere stata violentata a scuola. Da un branco. Qui a Salerno, nei bagni dell'istituto. Ne ho parlato con la preside, con mia grande sorpresa non si è preoccupata per quello che era accaduto, ma del buon nome della scuola. La ragazza poi non ha voluto sporgere denuncia, per tutelare se stessa dal supplizio di una inchiesta lunga e un processo che spesso è umiliante più per le vittime che per i carnefici. E, soprattutto, per non far sapere ai genitori quello che è accaduto. Si è limitata a cambiare istituto. Portando dentro di sé, quel terribile segreto».

Paura, silenzi, solitudine. Dietro le violenze in famiglia c'è anche questo. Molte sono comunque riuscite ad andare avanti. A spezzare le catene, anche costo di pagare un prezzo altissimo. Come Filomena Lamberti.

«Sì, lei è il nostro simbolo. L'esempio vivente. Quando si è sposato suo figlio, dopo una vita trascorsa a subire di tutto, ha deciso di rompere il matrimonio. Di lasciare quel marito che l'ha oppressa, umiliata e picchiata per decenni. Lui non ha reagito subito, poi di notte l'ha svegliata e le ha buttato sul visto dell'acido. Filomena è stata in coma, ha rischiato di morire. L'uomo se l'è cavata con una pena ridicola. Filomena ha subito 24 operazioni al volto. Vive con poco e ci aiuta al centro. Ma sa cosa dice: «Ora sono libera, dopo tanti anni ho capito cos'è la libertà».