Ciccio Movieil commento di Francesco Capozzi

"Un piccolo favore"

Il film (USA, 18) è tratto da un romanzo giallo omonimo di Darcey Bell del 17

un piccolo favore

“Stephanie, madre single diventa amica dell’affascinante, elegante ed elusiva Emily, a causa dei figli amici di scuola. Emily scompare e  Stephanie ne parla nel suo video-blog di tutorial domestico; inoltre ne prende il posto nell’affetto del vedovo e del figlio. Di Emily viene ritrovato il cadavere; ma il mistero permane.

Il film (USA, 18) è tratto da un romanzo giallo omonimo di Darcey Bell del 17, pubblicato anche in Italia da Rizzoli: ma il regista e produttore del film Peter Feig l’ha reso qualcosa di diverso da un semplice mistery, come farebbe prevedere l’ossatura del racconto, cui la sceneggiatura è rimasta sostanzialmente fedele.

Il bellissimo e molto articolato script è dello stesso regista e di Jessica Sharzer, specializzata in film di genere e serie tv. Peter Feig è considerato uno dei padri della nuova comicità hollywoodiana al femminile. Parallelamente, ma distintamente, al lavoro di altri e noti produttori-registi come Judd Apatow e Seth Rogen, ha impostato in modi nuovi i canoni della comicità e della commedia brillante classica, che vedono ragazze e le donne come protagoniste,. Non più semplicemente “spalle”, ma esse stesse motori di comicità.

Anzi in grado di cogliere in sede di scrittura, con più sottile aderenza e profondità di osservazione, le trasformazioni dell’universo femminile nelle condizioni della contemporaneità sociale, a partire dalle classi impiegatizie medio-basse, cui spesso appartengono. Di classe operaia tradizionale ce n’è assai poca; ma sono rappresentate in quei ruoli le nuove figure produttrici di plusvalore da sfruttamento e precariato nel terziario intellettuale, in relazione alle moderne forme organizzative del capitale finanziario.

Esse sono più raramente rappresentanti dell’alta borghesia imprenditoriale o delle professioni, cui siamo stati abituati. In ogni caso, sono per lo più tutto il contrario delle femmes fatales che eravamo soliti vedere, e che comunque rendono inconfondibile il fascino e il glamour hollywoodiano: sono imbranate bruttine come Anna Kendrick, la protagonista del presente film, che “scompare” letteralmente, e volutamente, di fronte all’incanto personale, non solo fisico, senza tempo di Blake Lively, che interpreta Emily. O sfigate poracce di nessuna attrattiva apparente come l’attrice regista e produttrice Kristen Wiig; o ciccione d’incontrollabile malagrazia, se non scorbutiche parolacciare  e di ostentata voracità bulimica come Melissa McCarthy: ma forti e dirompenti come cicloni; o l’altra oversize come Amy Schumer, regista e fine spettatrice umoristica di dinamiche familiari. Sono attrici, registe e produttrici presenti nei film di tutti e tre. Sono donne dotate di autonomia intellettuale, sociale e di forte consapevolezza di genere: e che complessivamente hanno portato forti ritorni economici al box office. Qui il conflitto tra le due è portato avanti con sottile sadismo. La ragazza-brutto anatroccolo -che però il regista non pensa minimamente a far diventare cigno- non è per niente una santarella: anzi spande un velo di pudibonda ipocrisia su alcune esperienze di affermazione decisa delle pulsioni dettate dal proprio eros, sfiorando senza particolare rimorso, il tabù dell’incesto, e altre esperienze di sessualità non edificante (diciamo così…) in famiglia, descritte sempre con disincanto e con distaccata e spigliata leggerezza. Eppure complessivamente tale cattiveria ci risulta simpatica.

Perché gestita narrativamente con un attento e serrato equilibrio delle altre notazioni, illuminanti differenti aspetti, positivi, del suo carattere; e soprattutto con la messa in confronto delle stesse con negatività ancor più devastanti e cattive, benchè meno ostentate. Ma è l’aspetto dinamico che affascina: il fare e il dire, spesso in contrasto tra loro, in tutti i personaggi, vengono come amalgamati in un’ordinata e mossa onda narrativa che va al punto e assorbe, utilizza i singoli dettagli, senza perdersi. Un miracolo di tensione di scrittura. 

Il personaggio di Stephanie è costruito con decisa e stratificata accuratezza: c’è questo, ma c’è anche altro; e quegli aspetti così disparati convivono armoniosamente. Il tutto rimanda alla capacità di sopravvivere con spigliatezza e una (necessaria) dose di cinismo alla disavventura del vivere in una piccola comunità di paese dello “sprofondo”, quei paesotti che sono corona delle megalopoli, e che gravitano su di esse. E poi, posto che tutti i peccatucci di coppia si fanno in due, bisogna dire che, pur non essendo lei un demonio manipolatore, ha trovato chi le dà spazio e complicità: come quel baccalà del vedovo, ma bisteccone desiderabile. Il film rende più antipatica la bellissima Blake Lively, che invece è volutamente e impudentemente macchinatrice. Il suo charme copre un’esistenza agitata. Tuttavia nel sottofinale, il regista “recupera” ad una visione meno schematica pure lei.

La bellezza un po' algida alla Rosamund Pike, cui è stata accostata per “L’amore bugiardo. Gone girl”, nel film la caratterizza molto incisivamente: lei stessa ci gioca con ironia e intelligenza. I suoi dialoghi, in realtà dei sanguinosi e aguzzi match senza sangue, con la Kendrick sono veloci e godibili. Il mio invito e auspicio è guardare questo film senza lasciarsi ingannare dal packaging apparentemente tradizionale della confezione: è un buon, anzi eccellente, film cattivo, non buonista. Tra l’altro molto divertente.