di Mariagrazia Mancuso* e Anita Vena*
«Ma lasciatelo stare. Questo è pieno di miliardi», dice una signora sulla sessantina.
Intanto lui è là, seduto per terra. Ci guarda con imbarazzo. Quasi incredulo che qualcuno gli abbia rivolto la parola. Parla poco. Anche perché non conosce granché dell'italiano. Ha imparato a dire "grazie" chiedendo l'elemosina. Vita da strada. Tutto qua.
Già, Antonio ha 52 anni ed è un barbone. La sua casa è Via De Concilii. Chi vuole, sa dove trovarlo. Eppure, sembra quasi che i passanti lo schifino. Sguardi di indignazione, di repulsione. Ci avviciniamo a lui per parlare un po', per conoscerlo. Lo portiamo in un bar e gli offriamo un panino napoletano. E la gente sembra meravigliata. Meraviglia suscitata da un semplice atto di generosità? Ebbene sì. In giro c'è poca tolleranza. Meno di quanto si possa immaginare.
Vogliamo dialogare con Antonio. Ma lui non parla, gesticola. E' della Romania, mastica soltanto il rumeno. Tuttavia, cerca ugualmente di spiegare la sua storia. Alza la mano per indicare il cartello posto accanto al bicchierino per l'elemosina. "Ho sei bambini e mia moglie è morta. Sono povero. Per favore, aiutatemi", c'è scritto. Qui, Antonio si lascia alla commozione. Occhi pieni di lacrime i suoi. Occhi tristi. Occhi che traspaiono una mancanza. Mancanza d'affetto, ovvio. La sua famiglia gli manca davvero tanto.
Fa freddo. Tanto freddo. Ma Antonio deve continuare a guadagnarsi da vivere. Ha il vizio di girarsi e guardare impietosito ogni persona che passa. Quasi a implorare qualche spicciolo. Ormai questo è il suo lavoro.
Alla domanda: «Come ti senti a elemosinare ai passanti?», lui fa spallucce. Fa cenno di no con la testa. Un no che dice tutto. Un no che fa capire a cosa si può arrivare, quando si è disperati. Il motto dei latini era "primum vivere, deinde philosophari". E lui, lo incalza alla perfezione. Pensa alla propria vita, a mangiare. Del resto, come tutti gli "abitanti della strada". In questi casi, di orgoglio e dignità c'è ben poco da dire. Semplicemente, bisogna pensare a se stessi.
Lui il Natale lo ha passato alla Caritas di Avellino, dove dorme tutte le notti. Luogo di incontro, di condivisione con altri senzatetto. Ma soprattutto luogo di speranza.
Antonio di speranza ne ha da vendere. Il suo sogno è quello di poter riabbracciare i suoi bambini. Magari un giorno ci riuscirà. Magari un giorno saranno tutti sotto lo stesso tetto.
Ma Antonio non è l’unico in questa situazione. Ovunque, qui ad Avellino, possiamo trovare uomini, donne e bambini che vivono per strada. C’è un’anziana signora, che si siede sempre vicino alla frutteria, in via Tagliamento. Probabilmente è anche lei una rom. Non molto loquace. Anche lei non conosce la nostra lingua. Conosce solo le parole “grazie” e “per favore”. Ogni tanto qualcuno si impietosisce e le lascia qualche moneta, un pacco di salatini. Ma non è mai abbastanza. Alla sua età non dovrebbe stare su una panchina 18 ore al giorno, a dicembre. Un cappellino rosa. Unico riscaldamento.
Stesso discorso per la ragazza rom accoccolata davanti Coccinella. Ogni tanto è accompagnata da un bimbo. Forse il figlio. Chiede la carità. Ma non dà fastidio, nel suo angolino. Non sempre chi passa le offre calzoni e crocchette. Qualcuno si diverte anche a regalarle qualche insulto. “Cagna”, ”sanguisuga” e “battona” sono i più gettonati.
Oltre ai rom, ci sono moltissimi nigeriani, libici, tunisini. Anche qualche libanese e siriano. Sono tutti sparpagliati per la città. Ognuno ha la propria zona. Francis è un giovane nigeriano, e la sua seconda casa è il Carrefour. Un po’ imbarazzate, ci avviciniamo. Gli offriamo delle patatine. Sembra accettarle volentieri. Le sistema in un carrello. Uno di quelli vicino all’ingresso del supermercato. Lì ha sistemate le sue cose: un paio di guanti, un’arancia ammaccata e una rivista. Chiediamo se ha voglia di parlare un po’ con noi. Continua ad annuire e a ringraziare, non capendo mezza parola d’italiano. Non parla né tedesco, né francese. Ma per fortuna conosce l’inglese. Accetta di seguirci ai tavolini.
Sguardi scettici dei cassieri. Qualche cliente si gira, qualcuno bisbiglia. Francis, irrequieto e a disagio sullo sgabello, inizia a parlare. Quando aveva 13 anni, è stato separato dalla famiglia. Dalla Nigeria, alla ricerca di un futuro migliore, si è trasferito in Libia. I cinque anni in Libia sono stati i più duri. Ripete solo “It was hard... it was hard…”. ‘E' stata dura’. La voce trema. Ci spiega che lì non c’era nessuna sicurezza. Tensioni politiche, povertà dilagante. Aveva paura di morire. Ogni giorno era una scommessa, un chiedersi se sarebbe arrivato alla mattina seguente. Quando scoppia la prima guerra civile, nel 2011, Francis è stanco. Capisce che lì non può sperare in un futuro. C’era il rischio concreto che morisse durante la rivolta.
Arriva così in Italia, su un barcone fin troppo simile a quello di Caronte. Un secondo viaggio infernale, sempre da solo. Ancora più lontano dal padre in Nigeria. E dalla sorellina, in Ghana. Lascia la sua terra. Rischia la vita per attraversare il Mediterraneo, ma questo è nulla. Le barriere non sono solo geografiche, ma soprattutto linguistiche. Senza nessun contatto, senza poter comunicare con nessuno. Eppure non si arrende. Cerca in tutti i modi di imparare le basi dell’italiano. Italiano mischiato a spagnolo e inglese.
Conosce altri ragazzi. Tutti provengono da diverse zone dell’Africa settentrionale. Insieme, abitano in un appartamento a Monteforte e collaborano per procurarsi da vivere. Francis, grazie all’elemosina, mette da parte una decina d’euro al giorno. I suoi vestiti sono perlopiù regali di misericordia. Ma il lavoro? Ci spiega che, seppur mastichi un po’ d’inglese, nessuno vuole assumerlo. Non parla italiano. Dunque, pochi sono quelli disposti ad affidargli qualche mansione. Almeno lui non è uno di quelli che “rubano il lavoro agli italiani”. Ma è definito “un parassita della società”. Che bella cosa l’ipocrisia: sia che lavorino, sia che vivano di elemosina, non va mai bene. Devono solo andarsene. O almeno è questo quello che comunicano gli occhi incuriositi dei passanti.
"Oh, guarda, uno ‘di loro’ sta parlando con delle ragazze. Sicuro è un malintenzionato. Che diavolo stanno facendo? Ma non possono andarsene al paese loro? Causano solo disagi. Sono sempre per strada e c’è il rischio che entrino in casa mia. Meglio andare a controllare. Forse è il caso di chiamare la polizia".
Tanti sguardi. Alzate di sopracciglia. Colpetti di tosse, alzate di spalle, scuotimenti di testa. Piccoli gesti, che comunicano molto più disprezzo delle parole. Vecchietti terrorizzati che si allontano dalla zona tavolini. Girano a turno la testa a guardarci. Accelerano il passo, e borbottano tra loro.
Francis sospira. Ha imparato a ignorare tutti quegli atteggiamenti. Ci fa capire come si senta a essere trattato come un cane rognoso. Non è felice. Dice che non tutti sono disposti a chiacchierare con lui, come stiamo facendo noi. Allarga le braccia e sorride. Una lacrima gli inumidisce la guancia scura. Una lacrima sola però, che ha lo stesso sapore delle nostre.
Chissà da cosa dipende la dignità di un uomo. Chissà se si perda chiedendo la carità. Una cosa è certa. Tutte le vite hanno lo stesso valore. E ogni uomo deve viverle serenamente. Ne ha il diritto. Questo, a prescindere da condizione sociale e nazionalità.
*Studentesse del Vivaio di Ottopagine. Il corso di giornalismo multimediale organizzato nell’ambito dell’iniziativa scuola lavoro.