di Luciano Trapanese

Davvero qualcuno si sorprende se il crimine organizzato è riuscito a infiltrarsi nella caotica gestione dell'accoglienza ai migranti? L'occasione per un business sporco è troppo invitante: una perenne fase emergenziale, centri che si aprono ovunque e con scarsi controlli, un affare che rende molto è a rischio zero e consente di lucrare su chi non ha la capacità di ribellarsi, i migranti appunto.

Le 'ndrine nel Cara di Capo Rizzuto sono un male prevedibile. In regioni, come Calabria, Campania e Sicilia, la malavita non si lascia certo sfuggire occasioni per guadagnare. E' stato così con l'emergenza rifiuti. Si continua con l'emergenza migranti. E' proprio l'indefinito periodo emergenziale ad allargare le maglie e consentire alla criminalità di prosperare. Con i soldi dello Stato (o dell'Ue), alle spalle dei più deboli. Lo schema è fisso e prevedibile.

Ma molto spesso sulla questione viene alimentata ad arte una confusione che non consente una visione d'insieme. E soprattutto realistica. Gli stessi organi d'informazione (per non parlare dei politici), confondono sigle e strutture, fornendo al caos altro caos. Gli agitatori hanno vita facile a sollecitare soluzioni impraticabili («via tutti gli immigrati»), e prospettare un futuro da incubo («è colpa loro se non si trova lavoro», dimenticando che siamo al centro di una tempesta perfetta: globalizzazione che crea più problemi di quelli che risolve, crisi economica dell'intero occidente, rivoluzione digitale e automazione del lavoro. Ci sta cambiando il mondo intorno e si frantumano certezze: l'immigrazione è un problema, non il problema).

Se ci avete seguito fin qui (grazie), vorremmo tentare di fare un po' di chiarezza sulla gestione complessiva dell'accoglienza, anche per capire quali sono i punti deboli e dove il crimine o gli speculatori fanno business.

I Cara. Sono i Centri di accoglienza per richiedenti asilo. Lì vanno tutti i migranti che arrivati in Italia irregolarmente chiedono la protezione internazionale. Quello di Capo Rizzuto era appunto un Cara. A gestirli è il ministero dell'Interno attraverso le prefetture. Sono loro ad appaltare i servizi a enti privati attraverso i bandi di gara (e qui sono possibili infiltrazioni anche della malavita organizzata).

Lo Stato versa una quota al giorno per ogni singolo immigrato (le convenzioni variano). Dovrebbe essere garantito l'alloggio, i pasti, l'assistenza legale e sanitaria, l'interprete e i servizi psico sociali. Nei Cara si resta fino a quando le commissioni non verificano le domande d'asilo. Al termine dell'iter c'è il migrante al quale viene riconosciuto lo status di rifugiato, quello che può ricevere una forma di protezione umanitaria, ma per molti c'è un diniego. Per questi ultimi, dopo un eventuale ricorso, scatta l'ordine di lasciare il Paese. Da quel momento diventano immigrati irregolari.

I Cara hanno una capienza di circa mille e 500 persone (sono quindi enormi). I costi complessivi sono difficilmente quantificabili (e questo rappresenta un serio problema). Ma – giusto per tornare alla cronaca – nella struttura di Sant'Anna di Capo Rizzuto sono stati spesi in tre anni più di 44 milioni (con un costo di 28 euro e 88 centesimi a persona per la gestione). Ma per dare un'idea del giro d'affari, ecco qualche numero: la gara d'appalto triennale si aggira sui 28 milioni (iva esclusa). Il centro ha creato 200 posti di lavoro, senza tenere conto del ricco indotto. La sola gara di pulizie vale circa due milioni. Lì dentro le condizioni di vita dei migranti non sono certo delle migliori: oltre alle case in muratura ci sono i container, dove dormono in nove.

I Cas. Se i Cara sono mega strutture con ricchi appalti, il vero business sono i Cas (Centri di accoglienza straordinaria per richiedenti asilo). Sono nati per arginare l'emergenza, ma col tempo si sono trasformati nell'asse portante della gestione dell'accoglienza. Sono ormai più di tremila, disseminati sul territorio. I Cara sono tredici. Gli Sprar – ma ne parleremo dopo – che sono gestiti dagli enti locali e dovrebbero essere la base del modello di accoglienza, sono poco più di 600.

I Cas avrebbero dovuto essere temporanei e provvisori. E' andata diversamente. Chi li amministra spesso non è capace di rispondere a tutte le necessità che la gestione di una struttura così complessa comporta.

Non vogliamo fare di tutta l'erba un fascio, ma appare evidente come proprio i Cas siano un clamoroso anello debole. Il punto nero che fa crescere l'insofferenza verso i migranti.

Gli ospiti sono spesso stipati in cinquanta, cento all'interno di edifici inadeguati, con personale non preparato. Non ricevono assistenza legale e non imparano l'italiano. Si trovano in luoghi isolati – con conseguenze immaginabili – o nelle estreme periferie delle città, dove suscitano allarme tra i residenti.

Ed è un affare molto redditizio. Gestito da privati o da cooperative. E nessuno può escludere anche qui e in alcuni casi la longa manus del crimine organizzato.

I Cas ospitano il 75 per cento dei migranti arrivati in Italia. Una enormità, soprattutto per dei centri che avrebbero dovuto solo arginare l'emergenza in attesa di soluzioni più credibili.

L'integrazione è un miraggio. Quello che comporta tutto questo si può immaginare: gli immigrati possono rimanere circa sei mesi nei Cas. Se la commissione rigetta il riconoscimento dello stato di rifugiato devono lasciare il centro. Da quel momento sono clandestini. Da quel momento sono in balìa di sfruttatori (che li schiavizzano per i lavori nei campi), o della malavita (spaccio, prostituzione).

Gli Sprar. Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), dovrebbe essere il modello base per l'accoglienza. E invece, forse perché è impossibile trasformarlo in un business, resta la Cenerentola della gestione immigrati.

Eppure si basa sulla rete degli enti locali che in concorso con le realtà del terzo settore, indirizza i migranti verso percorsi individuali di inserimento socio economico. Gli Sprar accedono al fondo nazionale per le politiche e i servizi d'asilo e per la realizzazione di progetti di accoglienza.

Soprattutto per i piccoli comuni rappresentano una opportunità di lavoro per gli operatori locali, per la comunità (con la riapertura di scuole e asili), per i soggetti deboli (con l'attivazione di misure e finanziamenti statali ed europei). In questi centri il numero previsto di rifugiati è di tre ogni mille abitanti. Numeri facilmente gestibili (nove rifugiati, spesso famiglie, in un paese di tremila abitanti). Oltretutto nei comuni che ospitano gli Sprar non c'è la possibilità di aprire dei Cas.

Se ci avete seguito fino a questo punto (davvero grazie), è molto probabile che vi stiate ponendo una domanda: perché l'accoglienza non viene gestita tutta dagli Sprar?

E' la domanda giusta. Le ragioni potrebbero essere molte. I sindaci non sono sempre informati. Oppure: c'è chi ha interesse a speculare sul dramma immigrazione. O anche: le prefetture non si sono mosse in modo adeguato per facilitare lo sviluppo di questi centri.

Di certo gli Sprar rappresentano una prima risposta concreta. E hanno un pregio – tra gli altri – innegabile: oltre a consentire una integrazione più piena, garantiscono una più equilibrata e gestibile distribuzione sul territorio.

Ma forse il problema è un altro: difficilmente speculatori e criminalità possono far affare con gli Sprar...