di Gianni Vigoroso
Ha subito atroci violenze nel deserto della Libia prima di arrivare ad Ariano Irpino. Un lungo e tormentato viaggio da Kolda in Senegal alle coste italiane. Ma ora Babacar Niang Gassama 30 anni si sente un uomo libero, e dopo aver riacquistato la sua serenità ha intenzione di scrivere libri. Il suo primo lavoro: “Diambadon” di cui ci siamo già occupati nei mesi scorsi con un servizio televisivo sul Canale 696, ha commosso davvero tutti nel corso di un incontro tenutosi nella Libreria Guida di Raimondo Ciccone al Corso Europa.
“I momenti più drammatici che ho vissuto in Libia sono stati quelli della prigionia, i sei giorni trascorsi nel paese di Mouhamar Khadafi. Era un martedì quando siamo partiti da Sabah per Tripoli, la capitale Libica. Gli Asma boys, gruppi di banditi armati, ci hanno fermati nella città di Benwalid per portarci in una casa abbandonata e isolata dove hanno riunito più di duecento persone in un grandissimo salone.
Quel giorno devo aver perso completamente la testa perché davanti ai miei occhi hanno ucciso tre persone che provavano a scappare. Ho visto altre tenute in ginocchio con le mani sulla testa e prese a calci nella schiena con grossi scarponi o addirittura frustati con fili elettrici. In questa casa dell’orrore, oltre alla mia sofferenza ho dovuto assistere a terribili scene.
Qualcuno ha persino ingoiato una pallottola di banconote, per cercare di nascondere quello che gli rimaneva e che poteva essere utile alla sopravvivenza. Così è morto, tra atroci dolori, colpito stavolta da una pallottola di denaro. In questa orrenda prigione siamo rimasti per sei giorni, senza mangiare. Alcuni per fame mangiavano topi, insetti, paglia e morivano di dissenteria. Invece di farci mangiare ci picchiavano con regolarità tre volte al giorno, all’ora di colazione, di pranzo e cena per fare in modo da costringerci a chiamare le famiglie perché ci mandassero soldi.
Il più delle volte picchiavano i giovani emigranti proprio quando erano a telefono in modo che dall’altra parte, le mamme e i parenti, potessero sentire le grida. Io anche a costo di rimetterci la vita, non ho mai avuto intenzione di chiamare a casa perché mia madre che è sempre stata preoccupata per me e che sicuramente non aveva il denaro richiesto, avrebbe potuto avere una crisi e morire di paura. Ho sopportato le botte fino alla fine, quando siamo riusciti a scappare.”
Baba è riuscito sin da subito a familiarizzare con la gente di Camporeale, luogo in cui è ospitato in un centro di accoglienza, a partire dalla grande famiglia de O Pollastriello, guadagnando stima e fiducia e insieme a lui anche gli altri ospiti del centro.
“Credo che dovremmo benedire questa nazione, che ai nostri occhi, seppur senza accorgersene, ci fa in qualche modo sentire liberi. Sono sgomento quando sento in televisione che ragazzi come me commettono furti, violenza, delitti. Non riesco proprio a comprendere come queste cose possano accadere e come si possa ripagare il bene dell’ospitalità con il male. A tutti i miei fratelli immigrati rivolgo ancora una volta un forte invito a rispettare il valore dell’ospitalità così importante nei nostri paesi di origine e ad entrare in punta di piedi nelle tradizioni e nella cultura delle città che ci ospitano in cui solo per caso o per fortuna, ci troviamo a vivere.”