Annamaria Carpenito Vetrano è stata per mezzo secolo e oltre il volto elegante e ospitale della Biblioteca provinciale “Scipione e Giulio Capone” di Avellino. La notizia della Sua scomparsa, giunta nella serata di un freddo mercoledì di febbraio, ha colpito profondamente quanti hanno avuto il privilegio di conoscerla e di frequentare le sue innumerevoli iniziative nelle accoglienti sale della “Capone”. Formidabile organizzatrice culturale, svecchiò le abitudini elitarie di quelle sale e fece del Palazzo di Corso Europa un punto stabile di riferimento per più generazioni di studenti e di studiosi. Il tutto secondo un principio di democrazia e di libera, moderna partecipazione.
Nelle calorose sale della nuova “Capone”, grazie all’intelligente visione della sua direttrice, si realizzarono durature alleanze generazionali che hanno inciso profondamente, attraverso una conoscenza libera, nel mondo giovanile e di conseguenza nei cambiamenti dei costumi, dei gusti e delle mode della società avellinese, ormai aperta concretamente alle crescenti richieste della modernità incalzante.
Bibliotecaria fin dagli anni Cinquanta, quando la “Capone” era ancora ospitata nell’austero Palazzo di Piazza della Libertà, Annamaria Vetrano si era formata alla scuola di Salvatore Pescatori, storico direttore della Capone fin dalla sua nascita nel 1913, e a quella severa di Mario Sarro, da cui ereditò negli anni la guida dell’istituzione più prestigiosa della provincia di Avellino e tra le più importanti dell’Italia meridionale.
La conobbi cinquant’anni fa: lo ricordavamo spesso tra noi. Avevo 16 quando entrai per la prima volta in biblioteca per ripararmi dalla pioggia e per meglio evitare incontri inopportuni avendo marinato la scuola. Da quel preciso momento la mia vita si è identificata con la storia della ‘Capone’ e per molti versi intrecciata indelebilmente con quella della sua amabile direttrice, che proprio in occasione della mia prima entrata nel sagrato della cultura, per quelle linee misteriose, favolose ed enigmatiche che guidano la nostra esistenza, incontrandola casualmente sulle scale di accesso, volle farmi visitare e conoscere i tesori di un luogo a me del tutto sconosciuto ed indifferente fino a quel momento. Questo episodio credo abbia cambiato radicalmente gli anni della mia giovinezza e quindi di tutta la mia vita futura.
Da quel giorno mi avvicinai allo studio ed iniziai ad essere attratto dal fascino e dalla compagnìa dei libri, dai colori delle rilegature e dai tanti odori che le varie qualità della carta emanano a seconda dei secoli e dei materiali in cui sono state prodotte e lavorate.
Da subito, con umanità e una punta di gioiosa ironia, la signora cominciò a chiamarmi “Professore”, titolo con cui mi ha appellato per mezzo secolo. Ricordo che quando tanti anni dopo lo divenni davvero Lei ne fu felicissima quanto i miei familiari. Mi disse solo, con una battuta fulminante degna di un grande umorista anglosassone, che comunque era dispiaciuta per la sofferenza degli invidiosi. La sua voce in occasioni del genere assumeva una sua sonorità teatrale e giocosa, pur restando avvolta in un sorriso di apparente, sobria accondiscendenza verso il malcapitato interlocutore.
I ricordi del nostro sodalizio in questo momento sono tanti, troppi, tumultuosi per essere riordinati e sistemati cronologicamente. Mi vengono in mente le tante giornate trascorse insieme a Misciano di Montoro nel palazzo della contessa Maria Pia Pironti, nipote del patriota e giurista Michele, nei primi anni Ottanta, per sistemare carte e libri che saranno in seguito versati all’istituzione avellinese, ricordo le innumerevoli mostre, lezioni e conferenze organizzate nella Sala Dorso della “Capone” tra il 1984 e il giorno del suo pensionamento, giunto, quasi con un intrinseco significato simbolico, alle soglie del nuovo millennio, ricordo le fitte conversazioni, ilari e gioviali, colme di progetti, che avevamo nella sala Del Balzo, dove la direttrice aveva fissato il suo ufficio, che si concludevano quasi sempre con un inevitabile, augurale ‘a domani’.
Mai in competizione con chi collaborava ai progetti culturali, era riuscita negli anni ad unire e coordinare le energie migliori della cultura giornalistica, letteraria e storica provinciale per la realizzazione di significative imprese scientifiche: la sistemazione della Emeroteca Tozzoli, l’inventario delle carte dello scrittore Carlo Del Balzo, il completamento della schedatura dei libri della formidabile donazione Capone e tanto altro.
Misurata nei giudizi, in decenni di amicizia e di reciproca collaborazione, comunque non si è mai concessa un pettegolezzo o espressioni affrettate sulle persone. In fondo era questo il tratto caratterizzante del suo stile e del suo modo d’intendere la vita: con spaziosa calma ospitava umanità ed eleganza.
Un capitolo intero meriterebbe il nostro rapporto con le carte e i manoscritti di Francesco De Sanctis. È questa una lunga, avventurosa storia iniziata nel 1989 con l’organizzazione della mostra “Le tappe della memoria”, allestita nel castello Biondi Morra di Morra De Sanctis, e conclusa con la pubblicazione del fondamentale catalogo dei mss. desanctisiani nel 2001, realizzato grazie alla sua caparbietà e pazienza. Mi limito a ricordare un episodio che forse sintetizza ancor meglio i tratti della sua personalità.
Le carte De Sanctis, conservate nella “Capone” dal 1917, dovevano essere restaurate e rilegate dall’Istituto di Patologia del libro di Roma. Purtroppo i manoscritti erano stati sciolti senza un ordine, pertanto, per imperizia di chi doveva curarli, giacevano, credo di ricordare, in un salone del Collegio Romano in uno stato di spaventoso caos, appesi a dei fili come il bucato di una distratta massaia.
La direttrice mi chiese aiuto per uscire dal labirinto ricomponendo il giusto ordine delle sacre carte.
Raggiungemmo Roma e subito ci mettemmo a lavoro. La ricordo su una sedia che seguiva con trepidazione la mia caccia disperata ad un foglio della traduzione del “Faust” oppure la continuazione di un articolo su Leopardi. Dopo una lunga giornata, a sera, avevamo ricomposto ogni cosa. Il suo commento ancora una volta fu ironico e allegro. Al marito, l’indimenticabile on. Stefano Vetrano, che chiedeva notizie sull’impresa, la Signora, sorridente e lapidaria, rispose: “Stefano, il professore è unico”. E così iniziammo a parlare di tutt’altro.
Che aggiungere? Mi auguro che presto si possa ricordare la sua figura proprio nella sua amata Biblioteca dove almeno una sala le andrebbe intitolata a futura memoria.
Infine come non ricordare un episodio. Nella nostra ultima telefonata la Signora Vetrano mi disse che tra noi non eravamo mai giunti a darci del Tu. Per cinquant’anni avevamo usato sempre e solo il meridionale, affettuoso voi. Secondo lei era arrivato il momento del gran passo. Finalmente il Tu. Salutandoci sentii un affettuoso, rapido “Ciao Toni”.
In quel tenero saluto, un momentaneo nostro separarci, ho colto tutta l’inesauribile umanità di una persona che non lasceremo portar via dai distratti vortici del tempo.
L'autore è Professore ordinario di Letteratura italiana Dipartimento di Lettere e Filosofia- Università degli Studi di Cassino e del Lazio meridionale