Avellino

Capitolo I – Il palcoscenico vuoto. C’era un tempo in cui lui parlava, il palcoscenico era solo suo. Sempre. Poi, come nel triste ruolo di un attore tragico, tutto era finito. Dopo l'epoca dei trionfi (a ognuno il suo Papete) era iniziata quella della finestra, di casa sua.

Arrestato. Celebrato. Temuto
Aveva sedotto la città con il metodo più antico: la distrazione. Concerti, feste, illusioni. Dava al popolo un motivo per non pensare, e al contempo costruiva, tra una delibera e una stretta di mano, il più sofisticato sistema di potere che la città avesse mai conosciuto.

Quando fu eletto, dopo quattro campagne fallite e finanziate da benefattori interessati, parlò di riscatto. Ma era solo riscatto per lui. La città, quella vera, sprofondava. Ma chi se ne accorgeva? C’erano i fuochi d’artificio. C’era la pizza gratis.

Poi venne l’inchiesta. E, con essa, la caduta. Ma non il tramonto.

Capitolo II – La regina dimezzata

Non era un’ingenua. Aveva appena quarant'anni. Occhi chiari come vetro e un profilo da statua romana. Aveva servito da vicesindaco, certo, e con zelo. Ma non era mai stata una pedina. Era una lama. Solo che lui aveva saputo brandirla come fosse sua.

Poi era arrivata l'inchiesta. E lei aveva messo la corona. Ma, ahimè, era di cartapesta. Il trono, un nido di vipere.

Ogni mattina entrava in Comune con la stessa andatura: elegante, lenta, crudele. Salutava pochi. Fidava in nessuno. Era la sindaca, sì, ma comandava davvero? Ogni nomina che firmava tremava. Ogni incarico affidato pareva un patto con il diavolo.

E il diavolo, manco a dirlo, aveva un nome e un passato recente.

Capitolo III – I fili invisibili

Tutti lo sapevano, ma nessuno osava dirlo apertamente: lui comandava ancora.
Lo faceva con il metodo più subdolo: l’attesa.
Non parlava. Agiva per interposta persona. Mandava segnali. Riceveva voti. Distribuiva favori — sì, proprio così: favori! — pur senza incarichi ufficiali, pur senza uno scranno, ma sempre con una cravatta.

E lei, benché formalmente sola al timone, era accerchiata. I consiglieri del suo gruppo, quelli eletti con lei, le sussurravano voci di corridoio. E i dirigenti, quei tecnici eterni che sopravvivono a ogni giunta, continuavano a telefonare “per sbaglio” a numeri vecchi, cioè a lui.

Era un incubo amministrativo. Ma peggio ancora: era una tragedia greca.
Con il mostro nascosto nel labirinto. E il filo, tra le mani sbagliate.

Capitolo IV – Il documento

Arrivò di lunedì, dentro una busta gialla. Nessun mittente. Nessuna sigla. Nessuna spiegazione.
All’interno, una trascrizione. Due pagine. Una conversazione. Due voci.

La prima: quella del presidente della società comunale per i rifiuti.
La seconda: la sua. Quella di lui.

Lei, la nostra fantasiosa protagonista, lesse il documento come si leggono le lettere d’amore di un traditore: col cuore stretto e il pugno che si irrigidisce. Non c’erano accuse. Solo suggerimenti. Offerte. Consigli. Promesse. E tra le righe, la consapevolezza: questo potere non è tuo, è ancora mio. Fece in mille pezzi la carta e si ricordò di non buttarla nel cestino del suo ufficio. Da quel giorno, camminò più in fretta. E dormì meno.

Capitolo V – La festa dei morti viventi

Organizzò una festa, per dimostrare che la città era viva.
Si chiamava “Primavera Urbana”. Non era un’idea sua, no. Era un evento creato da lui, anni prima, quando ancora governava con i manifesti e gli effetti speciali. Lei lo rifece, ma con freddezza. Era la sua guerra, combattuta con le armi del nemico.

Durante il concerto, un uomo salì sul palco. Un ex dirigente comunale. Gridò al microfono: “La sindaca è solo una marionetta! Comanda ancora lui”. Fu trascinato via. Ma il video, ovviamente, diventò virale. Il giorno dopo, i giornali parlarono solo di questo.
E lei, nella sua stanza buia, sussurrò: “Questa guerra non è più politica. È personale”.

Capitolo VI – Il traditore

Lui era come il capitano Moreo Tumitis nelle cronache del ghiaccio e del fuoco. Era stato assessore, con la faccia da eterno secondo e le mani troppo pulite per esser vere. Nessuno lo ascoltava, e lui lo sapeva. Ma ascoltava tutti. E scriveva. Annotava. Registrava.

Quando lui era caduto, subito aveva giurato fedeltà alla regina. Ma lo aveva fatto con la voce bassa, come chi firma un assegno scoperto.

Per mesi fu il ponte segreto. Incontri nei garage sotterranei del Comune, nei retrobottega delle pizzerie, nei corridoi oscuri dei palazzi dove il potere, quello vero, si tramanda di sguardo in sguardo. Gli riferiva tutto. Anche le frasi non dette.

Poi una notte, scrisse una lettera. Una sola frase: “Lei sta preparando l’ultima mossa”.

La lasciò nel cruscotto della macchina. E poi sparì.

Capitolo VII – L'ultima mossa

Lei convocò una conferenza stampa per annunciare “la rivoluzione amministrativa”.
Fece revoche. Ci furono dimissioni. Di assessori. Dirigenti in ferie e malattia. Società si ritirarono. Consulenti si voltarono dall'altra parte. Era come un freeze del Grande fratello. Tutto era fermo. Sotto ghiaccio. Un colpo di teatro. Un’accusa senza processo. Un atto di guerra.

“Da oggi,” disse, “questa città si libera di ogni ombra”.
E il pubblico applaudì. Ma con quella esitazione tipica delle città che hanno imparato a non credere a niente.

Poi uscì una notizia: una rivelazione scottante. Dio è nei verbali, si pensò. Allegati, fatture, intercettazioni, e-mail. Alcune vere. Alcune dimenticate.

Lo avevano fatto.
Lui lo aveva fatto.

Ma lei, per la prima volta, sorrise.

Capitolo VIII – L’incontro

Accadde nel retro di una chiesa sconsacrata, alle cinque di mattina, quando solo i fantasmi camminano. Nessuna scorta. Nessun testimone.

Si guardarono per interi minuti senza parlare.
Poi lei disse:
“Credevi di distruggermi. Hai solo bruciato l’ultimo ponte”.

Lui rise. Ma era una risata stanca, quasi paterna.

“Tu non vuoi la città. Tu vuoi vincere contro di me. Come me”.

“Perché tu hai avvelenato tutto”.

“No. Io ho solo usato la gente che era già marcia”.

Poi tacquero. Per la prima volta, davvero.

Alla fine, lui sussurrò:
“Vincerà chi resta in piedi più a lungo.”

E se ne andò.

Epilogo – Da sola sul trono di scope

Nessuno indagò a fondo su quelle carte. Nessuno volle farlo. La città continuava a sopravvivere, come sempre. Con gli occhi bassi. Con il cuore chiuso. Nessuna foto, nessun messaggio, nessun saluto. Solo il silenzio. Rimase sindaca. Sul suo trono di scope. Non più libera. In attesa di altri mercanti, che già bussavano e chiedevano, si offrivano come odalische, ancheggiando. Persino i nemici di sempre avevano tolto l'assedio. Fiutavano l'odore dell'incarico, dell'affare.

La città degli occhi spenti non aveva più un padrone.
Ma nemmeno un salvatore.

Solo memoria.
Solo colpa.
E la sensazione, sottile, che l’unico vincitore fosse l’uomo che gestiva le scope.

Dissolvenza. Questa è solo una storia. Ma quando affidi il voto al diavolo...