Erano le 12:37 di un sabato d’estate. Una di quelle giornate in cui l’afa si attacca alle pareti, ai vetri, alla pelle. La fabbrica Icmesa — un nome che oggi suona come un anatema — rilasciò una sostanza invisibile, inodore, ma capace di entrare nel sangue, nelle ossa, nei sogni. Era la TCDD, una delle diossine più tossiche conosciute dall’uomo. E cadde su Seveso. Su Meda. Su Desio. Su Cesano Maderno. Su bambini che giocavano nei cortili. Su donne incinte. Su campi di pomodori, ciliegi, conigli. Sulla fiducia.

Nessuno sapeva niente. Nessuno diceva niente. Per giorni. Poi gli animali iniziarono a morire. Migliaia. Silenziosi, le zampe in aria, gli occhi sbarrati verso un cielo che li aveva traditi. Le madri iniziarono ad abortire. Alcune volontariamente, per paura. Altre no. Gli effetti si dispiegarono dopo un po'. Nella foto in alto il volto di un ragazzino segnato dalla cloracne, simbolo viscido della tragedia: ecco cos'era l'Icmesa.

L'Italia, quel giorno, imparò la parola "diossina". E non la dimenticò più.

Nel cuore della Lombardia operosa e industriale, qualcosa si era spezzato. Non solo il reattore chimico. Si era rotto un patto tacito tra progresso e sicurezza. Tra crescita e vita. L'Icmesa, controllata dalla multinazionale svizzera Hoffmann-La Roche, produceva triclorofenolo per cosmetici, erbicidi, colle. Ma quel giorno il reattore 101 esplose. E liberò l'inferno.

Furono evacuate 736 persone, ma la zona contaminata contava migliaia di residenti. Si scavò la terra, si chiusero scuole, si rase al suolo tutto. Si sotterrò persino il bosco. Una città intera fu amputata, sezionata, ripulita come un corpo infetto. La bonifica durò più di dieci anni. Un buco scavato profondo 10 metri ospitò i rifiuti contaminati, sigillati con cemento armato. Una ferita che ancora pulsa sotto il prato verde di oggi.

Ma da quel dolore, nacque una reazione. Nel 1982 l’Unione Europea varò la prima direttiva Seveso, per prevenire incidenti industriali a rischio. La legge italiana che la recepì fu pionieristica. Era un modo per dire: mai più. Ma era anche un’ammissione: era successo davvero. E poteva succedere ancora. E successe.

Manfredonia, 1976. Sempre quell'anno. Un'esplosione nell’Enichem liberò ammoniaca e arsenico.
Chernobyl, 1986. Non era Italia, ma la nube radioattiva viaggiò fino ai nostri pascoli, al nostro latte, ai nostri figli.
Porto Marghera, anni ’80 e ’90. Il petrolchimico che avvelenò terra e laguna, mentre gli operai morivano di tumore.
Casale Monferrato. Eternit. Amianto. Morte a rilascio lento. Un’intera città trasformata in un’aula di tribunale.
Taranto, l’Ilva. Dove il lavoro uccide come la disoccupazione. E l’aria si respira con la gola stretta.
Avellino, l’Isochimica. I vagoni delle Ferrovie dello Stato venivano “scoibentati” a mani nude. I lavoratori respiravano polveri d’amianto come fossero polvere da spolvero. Il capannone abbandonato, per decenni, è rimasto una camera a gas congelata nel tempo. Gli operai sono morti uno a uno, senza mai una parola in prima pagina.

Quante Seveso abbiamo avuto? Quante ancora ne avremo?

Ogni volta la stessa storia. L’opacità. Il ritardo. Le rassicurazioni. Poi la rabbia. Poi il silenzio. Poi le bare. E poi — se va bene — le leggi. Che arrivano sempre dopo. Che hanno sempre il sapore della cenere. Ma Seveso fu la prima. La madre di tutte le paure industriali. Lo spartiacque. Il momento in cui il Paese, all’improvviso, capì che il progresso poteva avvelenare i figli. Che dietro ogni ciminiera c’era una bomba a orologeria. E che bastava un guasto, un attimo, un colpo di vento — e la vita si copriva di una polvere invisibile.

Oggi, a quarant’anni di distanza, il Bosco delle Querce sorge al posto del quartiere contaminato. Un parco. Un luogo di pace. Ma chi ci cammina, se sa, non può che sentirla: quella lama nel fianco della memoria. Quella ferita che la natura ha ricoperto, ma che ogni estate torna a bruciare sotto la pelle del Paese. Perché Seveso non è solo un nome. È una domanda che non ha mai avuto risposta: quanto vale la vita, quando a metterla in gioco è il profitto? E finché quella domanda resterà sospesa, Seveso continuerà a respirare. In ognuno di noi.