I modelli politici novecenteschi sembrano in una fase di irreversibile esaurimento e questo spinge a riflettere su nuove forme di organizzazione della struttura partito per tentare di drenare il costante allontanamento del cittadino dalla politica oppure a redimere le costanti rivendicazioni del civismo, sovente pericoloso, se non strutturato nella rete sociale, così quanto talune degenerazioni della partitocrazia. Sull’argomento sarà sempre utile leggere il testo del politologo e sociologo statunitense Putnam, “La tradizione civica nelle regioni italiane” (1993) anziché avventurarsi in analisi e spunti disarmanti, non privi di una noiosa irrilevanza concettuale.
Oggi in Italia l’astensionismo è il più forte partito presente in ciascuna competizione elettorale. Nessun raggruppamento, anche tra i più strutturati, riesce infatti a raggiungere le percentuali che ad ogni elezione, sia locale che nazionale, ottiene la nebulizzata comunità degli astensionisti.
Di fronte alla devastante personalizzazione della politica e alla continua sua perdita di credibilità nell’opinione pubblica, siamo al decadimento della qualità della democrazia e all’affermazione delle sue antitesi. Venticinque anni fa Susan J. Pharr e il già citato Robert D. Putnam, in un rapporto commissionato dalla Trilateral, dimostrarono che la disaffezione dei cittadini nei confronti della sfera politica costituiva una delle grandi questioni della democrazia rappresentativa contemporanea.
Ma non facciamola lunga. Pochi giorni fa 34 tra intellettuali, giornalisti e scrittori, riprendendo argomenti già esposti nel 2022 nel volume “Il Monarca. De Luca e la questione meridionale” (Roma, Paper First) e in una lettera aperta inviata al segretario del PD del tempo, Enrico Letta, che ovviamente ignorò l’appello, hanno contestato gli accordi, al momento occulti, tra il duo Schlein-Conte e il presidente uscente della regione Campania per la realizzazione di quel traballante “campo largo” che nell’imminenza delle scadenze elettorali diventa pretesto per operazioni misteriose, fondate su imposizioni tiranniche, lontane da qualsivoglia coinvolgimento attivo dei cittadini.
Già nel volume del 2022, introdotto dallo storico Aurelio Musi e curato da Massimiliano Amato e Luciana Libero, alcuni dei firmatari odierni mettevano in evidenza i gravi limiti della gestione deluchiana, i suoi fallimenti nel campo della Sanità e della gestione del fiume di denaro erogato dal governo per fronteggiare l’emergenza Covid, la ossessiva rappresentazione del potere attraverso atteggiamenti e linguaggi assai autoritari e spaventosamente egocentrici, pratiche clientelari e familistiche intollerabili, dossier trattati con arrogante disinvoltura e tanta complicità da parte di coloro che vivono d’incarichi e di contributi regionali.
Aldo Schiavone, uno fra gli storici italiani più tradotto e apprezzato in Europa, nel suo contributo apparso nel volume “Il monarca”, giungeva a scrivere: “De Luca ha sempre concepito il potere come umiliazione degli avversari, come sopraffazione di chi dissente, come invettiva ridicolizzante contro l’altrui pensiero, quindi lo si può definire a ragione un bullo delle istituzioni”. Di Schiavone sarà utile leggere il recente libro “Sinistra! Un Manifesto”, edito da Einaudi nel 2023.
In queste ore De Luca, ignorando il dato anagrafico e la desanctisiana misura del Limite, combatte una battaglia per la sopravvivenza politica e prova ad assicurare al suo giovane rampollo, da tempo parlamentare blindato del PD, un ruolo significativo nella gestione del prossimo potere regionale.
Non a caso, secondo diffuse fonti giornalistiche, si ritiene che l’appoggio alla candidatura di Roberto Fico, un personaggio a dire il vero non proprio carismatico e dalle competenze sconosciute, sia barattato con la carica di segreterio regionale del partito, da affidare al figliolo appunto dell’Irriducibile, e l’attribuzione di qualche incarico di peso nella formazione della nuova giunta.
Attraverso una pervasiva e scaltra critica antipartitica, talora ospitata con compiacenza da diversi giornali nazionali, il presidente, prossimo alla quiescenza forzata, non intende allinearsi ed uscire quindi dal sistema di gestione senza un congruo riconoscimento compensativo per il mancato terzo mandato.
La cultura monopolistica dominante, fondata sullo scambio di ruoli e funzioni che rendono immutabile lo schema del potere e della sua conservazione, è assai resistente. Basterebbe pensare all’interno del sistema regionale alla circolazione di coloro che vivono di politica e quindi usano il consenso acquisito nelle province come voto di scambio con quella stessa oligarchia che designa, assicura e protegge il loro perenne, funzionale reclutamento.
La cosiddetta “discontinuità”, una delle parole-chiave della Sinistra degli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso, appare ormai desueta. I linguaggi sono prosaici, crudi, e non ammettono oscillazioni ideali. I voti del monarca salernitano si possono ottenere solo accettando regole e patti riconducibili al familismo amorale, concetto sociologico teorizzato da Edward C. Banfield nella Lucania contadina degli anni Cinquanta.
Non si può rifiutare il voto delle clientele, ramificate nell’intero territorio regionale, dai paesi costieri del Cilento alla anfibia provincia di Caserta, correndo però il rischio di allargare la fascia dell’astensionismo, provocando di fatto un allontanamento di tanti elettori dall’area del centro-sinistra e un possibile successo della destra benché ancora priva di un candidato competitivo.
Siamo certi, intanto, che De Luca conservi inalterato il suo patrimonio elettorale dopo la mancata candidatura? Il suo ripescaggio politico con l’avvio della trattativa serve concretamente al centro-sinistra oppure diventa un ostacolo al suo necessario rinnovamento? Si possono ignorare le ingenti perdite nell’esercito deluchiano ad opera dell’operato della magistratura? Domande che non possono essere bruciate sull’altare di interessi legati unicamente al concetto della ridistribuzione delle candidature nel quadro di una nuova geografia degli equilibri generali del potere regionale: la Campania vale le Marche, e la Puglia, tra poco orfana di un presidente che si autonomina nel consiglio della Fondazione del teatro Petruzzelli di Bari, con chi la scambiamo?
La Schlein, una praticante amatoriale che rinnova senza mai rompere con il passato - proprio in Campania il partito, diviso e frastagliato, è commissariato e in città come Avellino e Caserta non si riesce a svolgere un congresso da tempo immemore -, e Conte, l’avvocato del popolo giustizialista che corre laddove lo porta l’interesse di giornata, devono fare i conti con una realtà complessa, ancora colma di ampie sacche di sanfedismo e neofeudalesimo, occupate da avidi portatori di voti, disposti a tutto pur di conservare o acquisire incarichi e privilegi.
La Campania attuale, la rappresentazione più emblematica dei disastri del localismo regionale e di amministratori talvolta privi di un fondamento etico, non è una terra promessa ma l’insieme di città e paesi lacerati sul piano sociale ed economico, gestito con metodi riconducibili a un vero e proprio modello di boss-system, in cui non si entra se non per cooptazione e arbitraria designazione del monarca e dei suoi servili comprimari. La democratizzazione delle scelte e il riconoscimento delle competenze appaiono invenzioni romantiche in un contesto, inquietante e arcaico, come quello che condiziona da almeno un decennio l’istituzione Regione.
La ribellione delle élite, o di una sua modesta parte, non basta a incrinare una trattativa dai risvolti non proprio incoraggianti per il rinnovamento dell’arte della politica, ancora oggi condizionata dal conflitto tra simulazione e dissimulazione, entrambe orientate a generare una spirale di comportamenti devianti. Gli organi d’informazione e la distratta opinione pubblica appaiono interessati solo alla cronaca dell’immediato e del sensazionale, ma poco alle idee e all’autonomia delle persone, che possono costituire i fondamenti di una rinnovata identità della democrazia.
Un moralismo brulicante si agita nel vuoto e le pagine facebook, a tratti irrespirabili, violente e narcisistiche sul piano linguistico, ne amplificano in maniera innocua la diffusione attraverso il rituale quanto atteso ‘mi piace’. Eppure stiamo assistendo alla fine della Sinistra per responsabilità di personaggi che considerano il bene pubblico un possedimento di famiglia, tanto da poterlo persino lasciare in eredità con tanto di atto notarile: in questo caso gli esecutori testamentari sono due, Schlein e Conte e i rispettivi apparati, che trattano la Campania come una merce da contrattare con altre merci in un quadro di manifesta organizzazione della menzogna e di interessi non definiti, tutti riconducibili al vivere di politica.
Carl Schmitt sosteneva che “demoniaco non è il potere in sé, bensì il puro arbitrio del potere”. Ecco. Siamo giunti al riconoscimento dell’arbitrio, di un soggettivismo nefasto che occorre necessariamente abbattere con la forza della democrazia e della trasparenza delle azioni.
La trattativa in corso per le prossime elezioni regionali in Campania è vigliacca e insostenibile per chi continua a ritenere la politica non un obbligato “cursus honorum” per professionisti della carriera all’interno dei meccanismi di selezione delle classi dirigenti, bensì, un bene primario per la qualità e il comunitario senso di appartenenza alle istituzioni repubblicane.
Pensare che ad Avellino e nella sua provincia la politica, subalterna per definizione e fondata sull’egoismo casalingo di una pletora di modesti questuanti senza idee, è di fatto sospesa in attesa degli esiti della nota contrattazione o patteggiamento elettorale, procura un profondo disagio in chi vuole continuare a ritenere possibile che il realismo non possa fare a meno della sua intima utopia concreta e della speranza di perdere la memoria di questi orribili ‘eroi’ del nostro tempo - Lèrmontov perdoni la mia leggerezza -, sommergendoli nel mare della dimenticanza.
L'autore è Professore ordinario di Letteratura italiana Dipartimento di Lettere e Filosofia Università degli Studi di Cassino e del Lazio