La notizia della morte di Claudia Cardinale chiude un cerchio che sembrava non potersi mai chiudere. Perché Claudia, con il suo sguardo corrucciato e i tratti severi ammorbiditi da un sorriso improvviso, era diventata per il mondo una creatura eterna, sospesa tra il mito e la vita reale. Si è spenta a 87 anni, in Francia, a Nemours, accanto all’affetto dei figli. Con lei scompare non solo una delle più grandi attrici italiane, ma una donna che ha saputo attraversare il dolore senza mai piegarsi del tutto, trasformando la fragilità in forza, la costrizione in libertà, la bellezza in destino.

Nata a Tunisi nel 1938 da genitori siciliani emigrati, sembrava destinata a un’esistenza semplice, lontana dai riflettori. Ma la sorte, spesso crudele e generosa insieme, la spinse sul set quasi per caso. Da lì, un concorso di bellezza che lei non desiderava, un viaggio a Roma che avrebbe potuto finire in un ritorno, e invece divenne il preludio a una carriera unica. La giovane Claudia, ferita nel silenzio da un dramma privato che segnò per sempre il suo cuore, trovò nel cinema non un rifugio ma una possibilità di rinascita.

Il debutto con I soliti ignoti di Mario Monicelli la impose come nuovo volto del nostro cinema: un misto di sensualità e malinconia che la rendevano diversa da tutte. Non era una donna-oggetto, ma una presenza viva, inquieta, vera. Subì per anni la tirannia contrattuale del produttore Franco Cristaldi, che la volle attrice, moglie e proprietà, ma Claudia riuscì a spezzare quella gabbia e a diventare finalmente padrona di sé.

La consacrazione arrivò con Visconti e Bolognini, con Rocco e i suoi fratelli e Il bell’Antonio, ma fu Il Gattopardo a scolpire per sempre la sua immagine nell’immaginario collettivo: Angelica Sedara, radiosa e fragile, che balla con Tancredi mentre attorno a lei si consuma il tramonto di un’epoca. E poi Fellini, con , Leone con C’era una volta il West, Damiani con Il giorno della civetta: ogni regista che l’ha incontrata ha trovato in lei una forza magnetica, una femminilità mai compiacente, un talento che trascendeva la parola “bellezza”.

Hollywood l’aveva accolta con La Pantera Rosa, con partner come John Wayne, Rock Hudson, Rita Hayworth, ma Claudia non volle mai essere solo una star internazionale: preferì rimanere italiana, legata a un cinema che parlava alla carne e all’anima. In Francia trovò nuove occasioni, in Italia l’amore con Pasquale Squitieri, che le diede una figlia e un sodalizio artistico intenso e difficile.

Gli anni Ottanta la videro accettare ruoli complessi e coraggiosi: Maria Maddalena per Zeffirelli, Claretta Petacci per Squitieri, la Napoli devastata de La pelle con Cavani, la grande epopea amazzonica di Herzog in Fitzcarraldo. E poi La Storia di Comencini, dove incarnò la sofferenza universale di una madre travolta dalla guerra, forse il ruolo che più di tutti raccontava la sua stessa forza di donna.

Dagli anni Novanta, scelse il teatro e l’impegno civile, sostenne i giovani autori, prestò la sua voce a battaglie per i diritti. “Ho vissuto il cinema per vivere meglio la vita vera” diceva, e in quella frase c’è tutto il suo paradosso: il set come rifugio e come verità, i riflettori come schermo e come svelamento.

La sua carriera è stata premiata ovunque, con David di Donatello, Nastri d’argento, riconoscimenti internazionali. Ma i premi non bastano a spiegare perché Claudia Cardinale resti impressa nella memoria collettiva. Basterebbe rivedere il valzer de Il Gattopardo, la grazia impacciata e regale della ragazza che diventa donna sotto gli occhi del principe di Salina, per capire che in quel volto si è depositata un’intera stagione del nostro cinema, forse irripetibile. Oggi il ballo è davvero finito. Dopo Delon, anche Claudia ha lasciato la sala. Ma nella musica che ancora risuona, nella scia luminosa che ha lasciato dietro di sé, resterà per sempre l’immagine di una donna indomita, che non smise mai di cercare se stessa.