l primo sangue. Era la notte tra il 30 e il 31 maggio 2010 quando la nave turca Mavi Marmara, ammiraglia di una flottiglia internazionale di sei imbarcazioni civili, fu abbordata in acque internazionali dalle forze speciali israeliane.
Gli attivisti, molti dei quali partiti da Istanbul per “rompere l’assedio” di Gaza, si opposero. I soldati risposero con il fuoco. Nove morti sul ponte, un decimo che morì mesi dopo. Le immagini del sangue sul ponte, i corpi allineati, la notte squarciata dai proiettili: tutto questo segnò una ferita profonda nei rapporti tra Israele e Turchia, e nella coscienza internazionale. Da quella notte, ogni altra “flotilla” portò con sé l’eco di quella tragedia.

La lunga teoria dei tentativi

Nel 2011 ci fu la seconda Freedom Flotilla. Ma quella volta, nessuna partenza eroica: la pressione diplomatica israeliana fu tale che la Grecia bloccò le navi nei porti. Le bandiere restarono piegate, i motori spenti. Nel 2012 la Estelle, battente bandiera svedese, partì ugualmente. Fu intercettata pacificamente, a poche miglia da Gaza. Gli attivisti arrestati, la nave sequestrata. Nessun morto, nessun clamore: solo la conferma che il blocco funziona. Tre anni dopo, nel 2015, la Marianne di Göteborg tentò la stessa rotta. La marina israeliana la intercettò e la dirottò ad Ashdod, senza sparare un colpo. I passeggeri rimpatriati in silenzio, la notizia svanì in poche ore.
Nel 2018 un’altra coalizione internazionale di attivisti — la Freedom Flotilla Coalition — tornò a provarci. Quattro navi, partite dal Nord Europa, fermate una dopo l’altra. Anche allora nessuno arrivò a Gaza.

L’illusione di un varco

Oggi, quindici anni dopo la Mavi Marmara, la Global Sumud Flotilla ha salpato dal Mediterraneo con un carico di aiuti e speranze.
A bordo, attivisti, parlamentari, volontari di mezza Europa. Intorno, una scorta simbolica di navi italiane e spagnole, come a dire che questa volta il mare sarà diverso. Ma il mare non cambia, e neppure Israele. Tel Aviv lo ha già detto: “Nessuno violerà il blocco.” Il copione è lo stesso, scritto da tempo. La Flotilla naviga, Israele la osserva, il mondo attende. Poi, una notte, radar e droni tracciano le rotte, e il Mediterraneo diventa di nuovo una linea invalicabile.

La certezza del confine

I precedenti non sono solo ricordi: sono precedenti giuridici e militari. Ogni volta Israele ha dimostrato che il blocco è totale, che l’intercettazione può avvenire in acque internazionali, che nessuna pressione diplomatica riesce a invertire la rotta. Da quindici anni, ogni Flotilla è un atto di testimonianza, non una missione di soccorso. Serve a denunciare, non a consegnare. Serve a ricordare che Gaza è prigioniera, ma anche che nessuno, finora, è riuscito ad aprire quella prigione dal mare. Quando questa nuova Flotilla affronterà il tratto finale verso sud, saprà di viaggiare dentro una storia già scritta. Ogni miglio la avvicinerà non alla salvezza, ma all’intercettazione. Perché tra il desiderio di libertà e la ragion di Stato, il Mediterraneo ha già scelto da che parte stare.
E in questo mare immobile, dove la tragedia del 2010 è ancora un’ombra che galleggia, resta una sola certezza: non arriveranno mai a Gaza.