C’è un entusiasmo febbrile, in queste ore. Titoli che parlano di “intesa storica”, analisti che azzardano la parola “svolta”, sorrisi diplomatici che somigliano troppo a quelli immortalati sul prato della Casa Bianca, trentadue anni fa. Rabin, Arafat, Clinton: tre uomini, tre penne, una stretta di mano. Il mondo applaudì. Poi arrivò il sangue. Oggi quella stessa illusione sembra tornare a respirare, travestita da pragmatismo, nutrita dalla disperazione di due popoli che non ne possono più. Ma chi conosce la storia del Medio Oriente sa che le strette di mano non bastano quando le prigioni restano piene e le strade piene di macerie.

Il nome che attraversa in filigrana ogni comunicato, ogni indiscrezione, è quello di Marwan Barghouti. Da ventitré anni dietro le sbarre, figura carismatica del movimento Fatah, amato e temuto perché capace di unire ciò che la politica palestinese ha frammentato: la rabbia dei campi profughi e la lucidità dell’élite di Ramallah. Condannato a cinque ergastoli per gli omicidi della Seconda Intifada, Barghouti non ha mai riconosciuto la legittimità del tribunale che lo giudicò. Oggi, nelle celle israeliane, è un prigioniero e un simbolo: un uomo che rappresenta, insieme, la colpa e la speranza di un popolo. In molti, dentro e fuori la Palestina, lo vedono come l’unico che potrebbe parlare sia ai fanatici che ai moderati, sia ai giovani di Gaza che ai vecchi quadri di Fatah. Per questo, il suo nome aleggia come un fantasma su ogni trattativa. E per questo Israele non vuole liberarlo: perché la pace, se mai dovesse arrivare, passerebbe inevitabilmente attraverso di lui.

Eppure, sarebbe un errore leggere il suo possibile rilascio come l’alba di un nuovo Oslo. Quella stagione, nel 1993, fu ubriaca di buone intenzioni e cieca di realismo. Rabin pagò con la vita la sua firma. Arafat morì isolato, consumato dai fallimenti. E la pace – quella vera, fatta di confini, dignità e sicurezza – non arrivò mai.

Oggi la storia si ripete in controluce. L’accordo “presunto”, ancora incerto nei dettagli, rischia di produrre la stessa illusione: qualche prigioniero liberato, qualche giorno di silenzio sulle armi, e poi di nuovo le sirene. La differenza è che, nel frattempo, la disperazione è cresciuta, e con essa la radicalizzazione. Barghouti, nel suo isolamento, incarna tutto questo: la possibilità di una leadership palestinese autonoma, ma anche il ricordo doloroso di tutte le occasioni perdute. È un nome che divide Israele e unisce la Palestina, e proprio per questo è pericoloso. Mentre la diplomazia si congratula con sé stessa e le agenzie battono le prime note ottimistiche, conviene ricordare che anche Oslo nacque così: con la gioia delle ore brevi, e il silenzio lungo dei cimiteri. Forse oggi serve meno entusiasmo e più memoria. Perché chi dimentica Oslo rischia di riscriverne, parola per parola, la tragedia.