È bastato un attimo. Il pullman del Pistoia Basket rientrava tranquillo verso casa dopo la sfida di Serie A2 con la Sebastiani Rieti. Poi, l’agguato: sassi, urla, caos. Uno di quei proiettili improvvisati ha centrato in pieno viso l’autista, Raffaele Marianella, uccidendolo sul colpo. Sessantacinque anni, un mestiere fatto di chilometri e pazienza, finito in un lampo per un gesto di violenza senza logica. La polizia, arrivata poco dopo, ha trovato indizi, frammenti di pietre e testimonianze. La Digos ha portato in questura dodici persone, tra cui un minorenne. Tre sono finite in stato di fermo con l’accusa più pesante: omicidio volontario in concorso.
Gli indagati e il volto oscuro del tifo
Manuel Fortuna, Kevin Pellecchia, ventenni, e Alessandro Barberini, cinquantatreenne: sono i nomi di chi, secondo gli inquirenti, avrebbe preso parte all’assalto. Appartengono alla “Curva Terminillo”, gruppo storico del tifo reatino, noto alle forze dell’ordine per episodi di tensione al PalaSojourner. Le prime analisi raccontano di una “spedizione punitiva” pianificata in chat. In una conversazione WhatsApp, si parlava esplicitamente di “una missione da portare a termine”. Non un raptus, dunque, ma un’azione deliberata, organizzata e codificata con il linguaggio della violenza. Il procuratore di Rieti, Lorenzo Francia, ha disposto analisi del Dna sui frammenti di pietra per risalire a chi abbia materialmente lanciato il sasso che ha colpito Marianella. Parallelamente, si indaga sulle auto utilizzate per la fuga, immortalate da telecamere stradali sotto un cavalcavia.
Neofascismo da tastiera
Scorrendo i profili social di due dei fermati si entra in un museo dell’orrore estetico: busti del Duce, inni alla “patria virile”, video di propaganda nera e riferimenti a CasaPound. Uno dei tre condivide anche una foto celebrativa di Ettore Muti, gerarca fascista caduto nel 1943, eroe della retorica mussoliniana. Non è un dettaglio folcloristico: è la cornice culturale di una certa violenza contemporanea che si traveste da identità sportiva per darsi un alibi. Non più “tifosi”, ma adepti di una fede tossica dove la curva diventa milizia, il campo territorio, la bandiera un’arma. C’è una linea sottile che separa la passione dal fanatismo, ma quando entrano in gioco l’odio politico e il culto della sopraffazione, quella linea si cancella. L’assalto di Rieti non è solo un episodio di cronaca nera: è un promemoria di quanto la violenza organizzata continui a infiltrarsi nello sport minore, lontano dai riflettori e dai controlli delle grandi arene. Eppure, ogni volta la sorpresa è la stessa: “non ce lo aspettavamo”. Come se non esistessero precedenti, segnalazioni, simboli stampati sulle magliette. Forse perché guardare in faccia la realtà significherebbe ammettere che certe curve non sono più curve, ma incubatrici di odio.
L’Italia che guarda e tace
Intanto Raffaele Marianella non c’è più. La sua morte ricorda quella di tante altre vittime finite nel cono d’ombra della violenza sportiva. E mentre la giustizia farà il suo corso, resta la domanda: fino a quando continueremo a tollerare che dietro la parola “tifo” si nascondano ideologie che nulla hanno a che fare con lo sport?
Perché, alla fine, il sasso lanciato a Rieti non ha colpito solo un uomo. Ha colpito l’idea stessa di sport come luogo d’incontro, non di guerra. E ogni volta che un branco travisato si appropria del nome di una squadra per imporre la propria rabbia, perde non solo la società, ma tutto il Paese che finge di non vedere.