Roma ha offerto il suo palcoscenico migliore al rito più tipicamente italiano: la nascita di un “progetto” che promette di cambiare tutto senza dichiarare ancora come. È il battesimo di Progetto Civico Italia, siglato dall’assessore Alessandro Onorato, con sala piena, selfie d’ordinanza e la classica promessa di “rimettere la politica tra le persone”. Funziona sempre: è una formula che accarezza l’elettore disilluso e rassicura l’amministratore navigato. Ma un editoriale non vive di carezze: chiede sostanza. Il civismo italiano ama definirsi “né di qua né di là”, salvo ritrovarsi regolarmente “di fianco”. La rete annunciata rivendica autonomia e, nello stesso respiro, dichiara di voler “arricchire” il centrosinistra. Autonomia sì, ma con accompagnatore. È il vecchio trucco del vestito nuovo: cambiare l’etichetta per non cambiare il guardaroba. Finché non compariranno regole interne, sedi decisionali e una linea riconoscibile, resterà un contenitore gentile dove entra tutto e, proprio per questo, non esce quasi nulla.

Paldino, la scommessa emiliana

Vincenzo Paldino porta in dote l’esperienza di Emilia-Romagna Civica: una federazione che, nel laboratorio più studiato del Paese, prova a stare in maggioranza senza sciogliersi nel partito cardine. È un messaggio serio: si può collaborare senza smarrire la targa. Ma la serietà, in politica, si misura in attrito. Quando arriverà la prima frizione su sanità territoriale, infrastrutture, sicurezza urbana, chi parlerà a nome di chi? E soprattutto: chi si prenderà la responsabilità di perdere un voto per tenere ferma una posizione? Il quadro che descrive Stefano Bonaccini – un Paese più povero e meno giusto – non è propaganda: è l’elenco dell’ovvio. Proprio per questo non basta più. Se la rete civica vuole essere “popolare”, l’aggettivo esige un sostantivo: salario, scuola, tempi della giustizia, credito alle Pmi, costo dell’energia, burocrazia municipale che strozza permessi e cantieri. Senza un’agenda di dieci righe sui temi che toccano le tasche, la “rete” resterà un nastro colorato, utile alla foto ma inadatto a reggere il peso di un progetto.

Il vento nuovo di Genova

Tra le molte presenze illustri, una ha attirato più sguardi delle altre: Silvia Salis, sindaca di Genova, olimpionica, temperamento pratico e linguaggio diretto. È lei, dicono, l’astro nascente di un Partito Democratico che guarda già oltre Elly Schlein. Non ha dichiarato di volerla sfidare, ma ogni parola pronunciata vale come un manifesto alternativo. “Non credo sia il caso di attaccare la destra — ha spiegato — bisogna parlare di quello che hai da dare, perché le persone devono credere in te e nel tuo progetto. A Genova ha funzionato.” Salis rappresenta il rovescio della medaglia della sinistra schleiniana: meno ideologia, più concretezza. Non ama le battaglie simboliche, né i grandi proclami sui diritti che si fermano alle conferenze stampa. Il suo è un civismo “manageriale”, con l’accento ligure di chi amministra un porto e non un congresso. In platea l’ascoltavano Bonaccini, Alfieri, Morani, Manfredi, Bettini, Nobili e lo stesso Conte. Ognuno con il proprio alfabeto politico, ma tutti accomunati da un pensiero muto: questa donna può parlare al Paese meglio di molti professionisti della retorica.

La sfidante che finge di non esserlo

Ufficialmente Salis non è candidata a nulla. Dice di voler “restare a Genova per cinque anni”. Ma chi frequenta le sale del potere sa che le negazioni più convinte sono spesso il preludio delle scalate più determinate. Al Progetto Civico Italia non ha parlato di sé, ha parlato di metodo: “Basta fare a gara su chi è più di sinistra o più radicale. L’unica gara deve essere sull’unità.” È la frase che Schlein non direbbe mai, perché disinnesca l’unico meccanismo che ancora tiene insieme il suo elettorato: la contrapposizione morale. Salis, al contrario, parla a chi lavora, a chi ha paura, a chi vota a destra per disperazione e non per ideologia. È un linguaggio semplice e pericoloso: quando la sinistra smette di giudicare e inizia a competere sui fatti, può persino vincere.

Il centro, l’ennesimo ring

Il commento di Matteo Richetti ricorda che il centro non è una panchina panoramica: è un posto scomodo dove si pagano conti da entrambi i lati. Se Progetto Civico Italia nasce per “unire” ma parte fregiandosi di contrapposizioni identitarie, finirà per costringere i civici alla vecchia liturgia: scegliere un “contro” prima ancora di scrivere il “per”. E allora ben vengano gli auguri, ma le carezze non spostano gli equilibri: li spostano i voti, e i voti li spostano le scelte impopolari spiegate bene. C’è un modo molto semplice per capire se questa volta si fa sul serio. Pubblicare – nero su bianco – tre priorità misurabili in dodici mesi, con tempi, cifre e responsabilità. Per esempio: ridurre del 20% i tempi dei permessi edilizi in dieci città pilota; abbattere di due punti l’abbandono scolastico in aree critiche con un piano di tutoraggio e trasporti; portare al 50% l’uso di appalti digitali sotto soglia con pagamenti a 30 giorni per i fornitori locali. Pochi obiettivi, numeri chiari, verifiche trimestrali. Tutto il resto è allestimento scenico.

La politica degli adulti

Onorato, Paldino e i molti amministratori accorsi a Roma hanno un vantaggio competitivo: governano pezzi di realtà. Se trasformano la rete civica in una filiera di soluzioni replicabili – manuali operativi, benchmark, scadenze – allora sì, potranno “riportare la politica tra le persone”. Se invece il civismo rimane il costume di scena con cui entrare in campo prima di riallacciarsi ai partiti, ci ritroveremo fra qualche mese a commentare un altro “progetto” appena nato, già in attesa di un vero autore. La politica degli adulti non teme i numeri, li pretende. Il resto è provincia del marketing.