Quando si parla di ultraortodossi e di coloni, si tende spesso a confonderli, ma in realtà si tratta di due mondi religiosi quasi opposti, nati da due modi diversi di leggere la stessa fede. Non tutti gli ultraortodossi (haredim) sono coloni. Anzi, storicamente i due mondi sono molto diversi: gli haredim classici, soprattutto quelli antisionisti (come la setta Neturei Karta o parte della comunità di Mea Shearim a Gerusalemme), non credono nemmeno nella legittimità dello Stato di Israele finché non arriverà il Messia. Per loro, quindi, occupare terre o combattere guerre in nome dello Stato israeliano è contrario alla fede.
I coloni religiosi nazionalisti (spesso detti dati leumim o appartenenti al movimento dei Yesha settlers) sono invece un gruppo diverso: credono che lo Stato di Israele e la colonizzazione della Cisgiordania (Giudea e Samaria, secondo la loro terminologia) siano un dovere religioso. Per loro, “redimere la terra d’Israele” significa insediarsi ovunque Dio l’abbia promessa nella Bibbia.
Gli haredim, cioè gli ultraortodossi, vivono la religione come un ritorno alla purezza della tradizione e alla separazione dal mondo moderno. Per loro, la Torah è l’unica vera legge, e la loro vita deve essere dedicata allo studio, alla preghiera e alla fedeltà alle regole divine. In questa visione, lo Stato di Israele, con la sua bandiera, il suo esercito e le sue istituzioni laiche, non è il “compimento delle promesse di Dio”, ma un progetto politico umano, anzi, in certi casi un atto di ribellione alla volontà divina.
Quando fu fondato lo Stato d’Israele nel 1948, il primo ministro David Ben Gurion concesse l’esenzione dal servizio militare a poche centinaia di studenti delle yeshivot (scuole religiose). L’idea era che si trattasse di una minoranza piccola e temporanea, utile a preservare la tradizione religiosa ebraica dopo la Shoah.
Ma negli anni, la popolazione haredi è cresciuta enormemente: oggi rappresenta oltre il 13% della popolazione israeliana e in rapida espansione. L’esenzione è rimasta, creando tensioni crescenti.
Molti haredim, soprattutto quelli più antichi, pensano che solo il Messia potrà fondare il vero Stato ebraico. Finché non arriverà, ogni forma di sovranità “umana” sulla Terra d’Israele è solo provvisoria e non sacra. Per questo, rifiutano la leva: non vogliono servire un esercito che difende uno Stato nato da mani umane, non da Dio. È una posizione teologica, non di codardia.
I coloni religiosi, invece, vengono da un’altra radice: il sionismo religioso, nato negli anni ’30 e diventato centrale dopo il 1967, quando Israele conquistò Gerusalemme Est, la Cisgiordania e Gaza. Per loro, la guerra dei Sei Giorni fu un segno divino, la prova che Dio stava restituendo al suo popolo le terre promesse. Da allora, credono che stabilirsi in Cisgiordania sia un dovere religioso, una “mitzvah”, un comandamento.
Ma in questo slittamento — dal sentimento religioso all’azione politica — la religione si è trasformata in ideologia. Alcuni di questi coloni, minoritari ma molto visibili, si sentono strumenti di un disegno sacro e quindi autorizzati a usare la forza. La violenza diventa per loro un mezzo per “realizzare la volontà di Dio sulla Terra”, e in questo si crea la contraddizione profonda: una fede che predica il rispetto della vita viene deformata in giustificazione del dominio e dell’espulsione.
La grande maggioranza dei rabbini ortodossi — anche quelli che vivono negli insediamenti — non approva la violenza. Condannano le aggressioni ai palestinesi, gli incendi di uliveti, le vendette contro i villaggi. Alcuni lo fanno in silenzio, altri pubblicamente, ma quasi tutti riconoscono che uccidere o colpire un innocente è una profanazione del nome di Dio. Tuttavia, in Israele, come in molte altre società lacerate, c’è una distanza enorme tra ciò che le autorità religiose dicono e ciò che i fanatici credono di fare “per fede”.
Così accade che un giovane ultraortodosso che si rifiuta di servire l’esercito in nome della purezza spirituale, viva accanto o poco distante da un giovane colono armato che si considera il “soldato di Dio” anche fuori da ogni legge. Entrambi invocano la religione, ma la interpretano in direzioni opposte: uno per ritirarsi dal mondo, l’altro per imporre la propria visione al mondo.
E in mezzo, tra queste due tensioni, resta il dramma quotidiano della Cisgiordania: contadini palestinesi che perdono le loro terre, villaggi sotto attacco, bambini che crescono nella paura. Tutto questo, per chi crede davvero nella Torah e nei suoi comandamenti più elementari — non uccidere, non rubare, non opprimere lo straniero — è una contraddizione intollerabile, un tradimento della stessa idea di Israele come “luce per le nazioni”. Molti ebrei religiosi, anche dentro Israele, lo dicono chiaramente: non è Dio che vuole la violenza, sono gli uomini che la travestono da religione.