C’è qualcosa di feroce nel vedere un Paese che ha fame di giustizia ridursi a misurare la moralità in un gozzo da 34 piedi o in una fettina di carne. Il dibattito pubblico è diventato un set televisivo dove si finge di discutere di etica, ma in realtà si recita per l’audience del rancore. Iannone posta, Fico risponde, i giornali amplificano. E intanto, nelle case, il frigorifero è mezzo vuoto e i figli emigrano. Abbiamo sostituito il conflitto sociale con la gossip-politica. Lavoro, reddito, casa, sanità: parole scomparse, sostituite da dettagli di cronaca che saziano la pancia del giorno e svuotano il pensiero del domani. L’etica non è più una scelta, è una sceneggiatura.
Il teatro della colpa
Ogni epoca ha il suo moralismo. Il nostro è spettacolare. Si finge di cercare giustizia, ma si desidera solo un colpevole da appendere al muro della giornata. Così un politico diventa simbolo di arroganza per una barca che non cambia la vita di nessuno; un’autorità pubblica diventa mostro per una spesa da dieci euro. Il potere applaude: perché mentre ci dividiamo sui dettagli, nessuno chiede conto delle scelte vere. Non si parla più di salari, di scuole che cadono, di ospedali che chiudono, di precarietà che divora le generazioni. Si parla di un gozzo. Di una fettina. È la distrazione perfetta.
Il vero scandalo
Il vero scandalo non è la barca di Fico. Il vero scandalo è un Paese in cui chi lavora non vive, chi risparmia non dorme, chi studia non spera. È il moralismo che copre la miseria, la retorica che copre la rassegnazione, la rissa che copre la resa. Non serve un’ennesima inchiesta sui porti o sui rimborsi. Serve un’inchiesta sull’anima. Su come abbiamo smesso di arrabbiarci davvero, di pretendere un’equità che non sia solo parola da manifesto, di chiamare le cose con il loro nome: ingiustizia, disuguaglianza, sopravvivenza.
La nave vera
L’Italia è una nave che non ha bisogno di capitani mediatici, ma di marinai che non scappano quando l’acqua sale. Serve un nuovo linguaggio: non quello dei post, ma quello delle mani. Parole che odorano di lavoro, di sudore, di rabbia buona. Perché la vera barca non è quella di Fico, ma quella su cui navighiamo tutti — sgangherata, sbilenca, ma ancora in mare. E il giorno in cui smetteremo di guardare il gozzo dell’altro e cominceremo a remare insieme, allora sì, potremo dire che la politica avrà ritrovato la sua rotta.
Le antiche regole del giornalismo
Spiegare la grande frattura che attraversa il giornalismo, la politica e la comunicazione contemporanea con una domanda semplice semplice: restare sul filo o incendiare il campo?
L’equilibrismo — quella postura da “terzista di professione”, da doroteo dei tempi moderni — rischia di svuotare il senso stesso della parola pubblica. L’idea di essere “neutri” è diventata spesso una forma di complicità passiva. Di fronte a un Paese che scivola, a chi lotta per arrivare a fine mese, a chi vede i propri diritti e la propria dignità erosi giorno dopo giorno, il racconto neutro può diventare anestetico.
Il giornalismo, se vuole ancora essere “servizio pubblico” nel senso più profondo, deve tornare ad essere un atto di partecipazione: il cane che abbaia e morde il potere, ovunque sia, da qualsiasi parte sia schierato. Contro perché potere. Quindi, non appartenenza, ma di parte. La parte di chi vive, lavora, suda, sopravvive. Non si tratta di fare propaganda, ma di restituire peso alle parole, di chiamare le cose col loro nome, di far tremare la pagina come tremano le mani di chi scrive sapendo che dietro una storia c’è carne, non algoritmo.
Tre parole-chiave che sono la radice di ogni linguaggio politico autentico: equità, redistribuzione, vita reale. Sono termini che non appartengono più a un campo o a un partito, ma a una comunità di senso. Sono la grammatica della sopravvivenza quotidiana. E sì, dovremmo usarle come armi. Non nel senso violento, ma in quello gramsciano: parole che aprono crepe nel discorso dominante, che rompono la retorica del “va tutto bene”, che smascherano la faccia lucida del potere mentre la gente si arrabatta con 1.200 euro al mese e un mutuo variabile.
Forse la misura giusta non è tra “moderazione” e “militanza”, ma tra verità e indifferenza. Scrivere oggi non significa “equilibrare le versioni”, ma dare voce a chi non ne ha una. In questo senso, essere esplosivi è un dovere morale, non una strategia comunicativa.?Perché se le parole non scaldano più, allora il silenzio diventa complice.