Avellino

Ci sono anniversari che non si limitano a segnare il tempo: lo incidono. Trent’anni fa iniziava una storia che nessuno avrebbe scommesso durasse più di qualche mese e che invece, testarda e impervia, ha scelto di diventare un pezzo di vita. Ottopagine nacque così, come nascono le idee vere: nel disordine di un garage, tra furibonde discussioni, un entusiasmo ingenuo e quella fame di parola che solo i giovani giornali possiedono.

Sono passati tre decenni e forse quella scintilla è viva solo nei ricordi di un vecchio giornalista, più simile a Hiroo Onoda, ufficiale dell'esercito imperiale giapponese trovato 29 anni nella giungla, convinto che la seconda guerra mondiale fosse ancora in corso. La mia giungla, non sempre ma che di tanto in tanto sfoglio, è nei libroni rilegati che custodiscono le edizioni cartacee, araldi di un’altra epoca, testimoni di notti insonni, di storie e tragedie narrate, sconfitte e rinascite. È memoria di chi c’era, di chi ha retto l’urto dei giorni ma anche di chi si è perso per strada. Ogni compleanno è un varco nel tempo, e questo, più di altri, costringe a guardare indietro senza paura.

Dalla carta al web, senza smarrire l’anima

All’inizio c’era un quotidiano stampato che odorava di piombo e freddo mattutino. Oggi Ottopagine, grazie all'editore Oreste Vigorito, è una creatura digitale tra le più lette in Campania, un giornale online stabile tra i primi cinquanta in Italia, capace di fronteggiare colossi nazionali con la sola arma che ha sempre avuto: il lavoro, quello vero. Da quel garage, le sedi sono diventate quattro: Avellino, Benevento, Salerno e Napoli, rigorosamente elencate in ordine cronologico Una squadra cambiata. Attraversata da generazioni di giornalisti e tecnici. Ognuno ci ha lasciato un segno, una ferita, una gioia. E nella somma imperfetta di tutte queste vite c’è l’identità di Ottopagine: un giornale che non ha mai smesso di essere un’officina, un laboratorio, un luogo dove si impara sbagliando e si riparte senza tregua.

La gratitudine che salva

C’è un elenco, nella memoria di chi scrive, che non smette mai di allungarsi. Alcuni se ne sono andati, altri ancora sono passati solo per un tratto breve, ma decisivo. Trent’anni ti insegnano che a fare un giornale non sono i titoli, né le firme, né i direttori: sono le mani, gli occhi e i cuori di chi si alza ogni mattina convinto che la verità meriti fatica.
Chi è rimasto dal primo giorno forse non sa se ha meritato di restare. Anche questo fa parte del mestiere: non ci sono patenti, non ci sono eredità garantite. Ci sono strade che si incrociano e altre che si separano, e poi c’è quel filo che a volte decide da solo a chi tocca continuare il viaggio. Accettarlo non è rassegnazione, è riconoscenza. Soprattutto verso i lettori che ogni giorno, clic dopo clic, danno senso a tutto questo.
Il tempo mette alla prova più dei terremoti, più delle crisi economiche, più della concorrenza feroce. Il tempo domanda una sola cosa: se hai ancora qualcosa da dire. Ottopagine lo ha avuto ieri, lo ha oggi e — se il destino sarà generoso — lo avrà ancora domani. Perché un giornale che nasce in un garage e vive trent'anni è un miracolo. E gli atti d’amore, non sempre, ma di tanto in tanto, sopravvivono alla solitudine. Quella vera, consapevole di non essere frutto di numeri primi.