Napoli

Mentre la città si prepara a spegnere le luci del Giubileo della Speranza, l’Arcivescovo di Napoli, don Mimmo Battaglia, sceglie la via di una lettera aperta per scuotere le coscienze dei fedeli in vista del Natale. Non un semplice augurio formale, ma un invito incisivo a "chiudere le porte dell'egoismo" per spalancare quelle della solidarietà. Il Cardinale affida il suo pensiero a una narrazione simbolica potente: un Gesù Bambino che, nella notte santa, percorre le strade del mondo con un mazzo di chiavi in mano per scardinare le serrature del dolore contemporaneo.

Dalle fabbriche dismesse ai migranti: le porte da riaprire

Il messaggio di Battaglia entra con forza nei temi caldi dell'attualità sociale. Nella sua metafora, la prima serratura a cedere è quella delle relazioni ferite, dove l'orgoglio spesso impedisce il perdono. Ma lo sguardo del Cardinale si allarga rapidamente alla crisi del lavoro e alle emergenze umanitarie. Don Mimmo scrive di "porte chiuse delle fabbriche dismesse", simboli di un'economia che scarta le persone in nome della fretta, e dei "cancelli sigillati dei porti", serrati da una paura dell'accoglienza che nega il futuro a chi fugge via mare. Per ogni emergenza, Battaglia immagina una chiave diversa: il ferro vivo per la dignità del lavoro e una "chiave di luce" per far tornare il mare un luogo di speranza e non di morte.

"La speranza non è un fuoco d’artificio che scoppia nelle grandi occasioni, è una compagna discreta che cammina accanto a noi nella ferialità dei giorni."

Il cuore della lettera punta alla fragilità interiore, a quelle porte dei cuori senza speranza custodite dal buio e dalla stanchezza. Il Cardinale sottolinea che, sebbene la Porta Santa del Giubileo sia prossima alla chiusura, l'atteggiamento di apertura verso il prossimo deve diventare un esercizio quotidiano. L'invito ai napoletani è quello di non considerare la fiducia come un bene perduto, ma come una "scintilla" capace di far fiorire la vita anche nelle situazioni più aride.

La riflessione di Battaglia si muove dunque su un doppio binario: da un lato la denuncia di un sistema che emargina, dall'altro una spinta emotiva a ritrovare il senso di comunità in una Napoli che, tra mille contraddizioni, cerca ancora la propria strada verso il riscatto. Resta da vedere se queste parole, cariche di simbolismo e impegno civile, riusciranno a tradursi in gesti concreti tra i vicoli e le periferie della città, trasformando il rito del Natale in un vero cantiere di ripartenza sociale.

Ecco il testo della lettera NATALE “A PORTE APERTE”

“Fratelli e sorelle miei,

ci sono notti in cui il silenzio parla più di mille discorsi, notti in cui Dio sceglie la via più umile e sorprendente per farsi capire: quella di un Bambino che nasce senza rumore, nell’angolo più dimenticato del mondo. E mentre ci avviciniamo a questo Natale che chiude anche il Giubileo della Speranza, sento nel cuore il bisogno di condividere con voi una storia. Come quelle che i nostri nonni ci raccontavano quando eravamo piccoli, quelle storie frutto di fantasia e sogno, che però contenevano messaggi carichi di verità senza tempo.

Si racconta che, nella notte di Natale, mentre tutti nel presepe dormivano – i pastori stretti alle loro coperte, Giuseppe seduto con la testa tra le mani stanche, Maria finalmente assopita – il Bambino aprì gli occhi. Non come chi si sveglia, ma come chi sente una chiamata a cui non può sottrarsi. Una luce, più viva di quella della lampada a olio, pareva sussurrargli qualcosa. Era la luce interiore del Padre che lo aveva inviato per salvare il mondo.

Il Bambino conosceva bene quella voce. E non si tirò indietro. Così, accanto alla grotta, appeso alla cintura di un pastore, c’era un mazzo di chiavi: alcune lucide, altre storte, certe pesanti come un destino, altre piccole come un fiore. Il Bambino, senza che nessuno se ne accorgesse, allungò la mano e le prese. Le chiavi tintinnarono piano, come se lo riconoscessero. Poi si alzò. E con passi leggeri come un respiro abbandonò il presepe e si mise in cammino con quel mazzo di chiavi, con l’unico desiderio di aprire le porte che l’egoismo, il peccato, l’indifferenza avevano chiuso.

La prima porta che incontrò non era visibile a tutti, ma il Cielo la vedeva benissimo: era la porta delle relazioni ferite, quelle fatte di parole non dette, di orgogli che non si piegano, di abbracci negati. Il Bambino scelse una chiave curva, fatta apposta per aprire ciò che è storto. La porta si sciolse come neve al primo sole, e dietro si affacciarono mani che tornavano a cercarsi, volti che si riconoscevano, cuori che ricevevano un’altra possibilità.

Più avanti trovò le porte chiuse delle fabbriche dismesse, quelle spente dalla fretta dell’economia che scarta. Le porte erano alte, arrugginite, mute. Lui prese una chiave pesante, di ferro vivo, e la girò nella serratura. La ruggine cadde a terra come pioggia, e da dentro uscì un vento tiepido: dignità che rinasce, lavoro che torna ad avere un volto umano, futuro che si riapre.

Proseguendo, il Bambino si fermò davanti ai cancelli sigillati dei porti chiusi, quelli serrati dalla paura di accogliere. Le loro porte erano fatte di timori, non di legno. Le aprì con una chiave di luce quasi trasparente. E il mare sembrò tirare un sospiro. Le onde tornarono ad accompagnare chi cerca una riva, una casa, un respiro nuovo.

Infine arrivò alle porte più difficili: quelle dei cuori senza speranza. Erano serrature fragili, custodite da buio e stanchezza. Il Bambino trovò nel mazzo una chiave minuscola, quasi invisibile, ma calda come una mano amica. Bastò sfiorare le serrature, e ogni porta iniziò a cedere. Non a spalancarsi: cedere. Come fa la speranza quando inizia a tornare. Una scintilla, una fessura, un inizio. E la vita fiorisce.

E poi, come se niente fosse, tornò alla grotta. Nessuno si era accorto della sua assenza. Depose le chiavi accanto al pastore, si sdraiò nella mangiatoia, guardo gli occhi teneri di sua madre, e chiuse gli occhi tornando a dormire.

E da quella notte, dicono, ogni volta che una porta si apre contro ogni logica – una riconciliazione insperata, un lavoro che riparte, un approdo che salva, un cuore che ricomincia a respirare – è perché quel Bambino continua a camminare nel mondo con il suo mazzo di chiavi. Perché è l’Emmanuele, ed è sempre con noi. Anche quando non lo vediamo. Anche quando non ci crediamo più. Perché Lui vuole che nessuna porta resti chiusa.

Amiche, amici, questa storia ci raggiunge mentre il Giubileo della Speranza giunge alla sua conclusione. Tra poco la Porta Santa si chiuderà, come accade alla fine di ogni Anno Santo. Ma se la porta si chiude, la speranza no. Non si chiude perché non è fatta di pietra. Non si chiude perché non dipende dai nostri meriti. Non si chiude perché ha un nome: Gesù. Che nella sua mano tiene sempre una chiave pronta ad aprire anche ciò che noi ormai diamo per perduto. Si, Cristo è la Porta viva. È la chiave della misericordia. È l’unica soglia che resta aperta, sempre. È il Bambino che, nella notte, cerca ciò che è chiuso e lo apre per farvi entrare la luce.

Sorelle e fratelli miei, buon Natale: che possiate lasciarvi sorprendere dalla vita, anche se oggi vi sembra di non avere più spazio per la fiducia. La speranza non è un fuoco d’artificio che scoppia nelle grandi occasioni, non è una grazia che si accende solo nei tempi giubilari o nei momenti solenni. La speranza è una compagna discreta: cammina accanto a noi nella ferialità dei giorni, si siede alla nostra tavola, cresce con noi quando abbiamo il coraggio di ripartire.

È il Bambino di Betlemme a ricordarcelo: non viene tra i potenti, non sceglie le luci né i palcoscenici. Viene nella nostra quotidianità, nei nostri silenzi, nelle notti in cui facciamo fatica a credere ancora. E dona la pace non come un premio, ma come una strada possibile: perché anche la porta della pace può essere aperta se accogliamo il Signore nella nostra vita.

Allora coraggio, mettiamoci in cammino, lasciamo che sia Lui ad aprire le nostre porte chiuse e fidiamoci della Sua Parola:

Dio Bambino,

tu che non smetti di aprire le porte chiuse della storia, le serrature più indurite dall’egoismo e dall’indifferenza, i nostri cuori troppo spesso chiusi alla fiducia e alla pace.

Tu che sei la Chiave di Davide,

vieni e apri alla speranza le nostre relazioni ferite,

le nostre città stanche,

le fabbriche e i luoghi di lavoro che vengono meno,

i porti che temono di accogliere,

le case che esitano a vivere in pace,

i cuori che si sono arresi dinanzi al futuro.

Apri le prigioni interiori, ciò che noi non riusciamo più ad aprire.

Apri dove le nostre chiusure hanno sbattuto le porte in faccia alla vita.

E insegnaci che nessuna ruggine è per sempre,

nessun blocco è definitivo,

e che per ogni porta santa che si chiude

ve n’è una che rimane spalancata in eterno: quella dell’amore.

Tu – Porta viva, chiave sempre pronta – continua ad aprire varchi proprio lì dove noi,

ostinati e impauriti, continuiamo a costruire muri.

Spalanca ancora le porte della speranza a questo mondo che mendica luce,

e fai passare con noi, uno ad uno, i fratelli e le sorelle che attendono un varco.

Resta accanto al nostro passo incerto,

e soffia ancora, oggi e sempre, il coraggio di ricominciare.

Amen.”