Anche l'arcidiocesi di Salerno ha chiuso le celebrazioni per iol Giubileo: ieri la celebrazione della messa al Duomo, davanti ad una folta presenza di sacerdoti, laici, diaconi e fedeli. Di seguito riportiamo integralmente l'omelia pronunciata dall'arcivescovo Bellandi.
Carissimi fratelli e sorelle, sacerdoti e diaconi, consacrati e consacrate, fedeli tutti della nostra Chiesa di Salerno-Campagna-Acerno; nella Domenica della Santa Famiglia celebriamo questa solenne Eucaristia nella nostra Cattedrale quale atto conclusivo dell’anno giubilare dedicato alla speranza. Non siamo qui semplicemente per chiudere un tempo speciale, ma per raccoglierne il frutto, affinché ciò che lo Spirito ha iniziato e già operato in noi continui a vivere nella quotidianità delle nostre famiglie, delle nostre comunità, del nostro presbiterio, della nostra Chiesa diocesana.
La Parola di Dio ci consegna oggi l’icona della Santa Famiglia di Nazaret e ciò non è affatto privo di significato per la chiusura di un anno dedicato alla speranza. Infatti, pur nella sua eccezionalità, la famiglia di Maria, Giuseppe e Gesù non è una famiglia – per così dire – “da cartolina”, non costituisce una rappresentazione famigliare astratta, idilliaca, ma una realtà cui non è risparmiata la fatica del quotidiano, il vivere in un contesto di ostilità, il dover compiere scelte difficili e impreviste. Una famiglia che conosce persino la fuga in un altro paese – oggi diremmo l’emigrazione – per salvarsi da chi la perseguita. La Santa Famiglia rappresenta allora un’espressione particolarmente eloquente di quello che significhi sperare in Dio (spes contra spem), che non è il facile ottimismo di quando le cose volgono al meglio, o l’ingenua fiducia che “domani cambieranno le cose; è invece quella speranza che va oltre la logica umana e si radica nella fede in Dio e nella sua promessa. La speranza cristiana, ha scritto papa Leone nel suo Messaggio per la IX giornata mondiale dei poveri, «è certezza nel cammino della vita, perché non dipende dalla forza umana ma dalla promessa di Dio, che è sempre fedele. Perciò i cristiani, fin dalle origini, hanno voluto identificare la speranza con il simbolo dell’àncora, che offre e stabilità e sicurezza. La speranza cristiana è come un’àncora, che fissa il nostro cuore sulla promessa del Signore Gesù, il quale ci ha salvato con la sua morte e risurrezione e che tornerà di nuovo in mezzo a noi».
È qui che comprendiamo il cuore del Giubileo: la speranza cristiana non è evasione dalla storia, ma forza per abitarla. Come ci aveva ricordato Papa Francesco, nella Bolla di indizione del Giubileo citando l’apostolo Paolo, «la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori».
Essa non elimina le difficoltà, ma le attraversa; non cancella le fragilità, ma le redime». Nel convocare l’Anno Santo, il Papa “venuto da lontano” aveva espresso il desiderio che questo tempo fosse “un’occasione per tutti di rianimare la speranza”, invitando a vivere questi mesi con “rinnovata fiducia e apertura al futuro”. La speranza cristiana – aveva detto consegnando la Bolla di indizione - «sostiene il cammino della nostra vita anche quando si presenta tortuoso e faticoso; apre davanti a noi strade di futuro quando la rassegnazione e il pessimismo vorrebbero tenerci prigionieri; ci fa vedere il bene possibile quando il male sembra prevalere; la speranza cristiana ci infonde serenità quando il cuore è appesantito dal fallimento e dal peccato; ci fa sognare una nuova umanità e ci rende coraggiosi nel costruire un mondo fraterno e pacifico, quando sembra che non valga la pena di impegnarsi. Questa è la speranza, il dono che il Signore ci ha dato con il Battesimo». Queste parole, oggi, risuonano per noi come una consegna e una responsabilità: la speranza non è evasione dalla realtà, bensì impegno; non è sogno vago e teorico, ma scelta decisa e quotidiana a favore del bene, della riconciliazione, della giustizia e della carità. E la famiglia è il primo luogo in cui la speranza viene generata e custodita; è nella famiglia che si impara la pazienza del tempo, il perdono che ricostruisce, la fiducia che apre al futuro.
Il Giubileo sulla Speranza, vissuto dalla nostra Arcidiocesi, è stato un vero cammino di Chiesa. Un cammino fatto di passi condivisi, di volti incontrati, di cuori riconciliati. Non semplicemente un calendario di eventi, ma un vero itinerario di conversione e di fiducia. Abbiamo sperimentato la gioia della speranza in varie occasioni: nelle celebrazioni giubilari, che ci hanno restituito la gioia dell’incontro con Dio; nei pellegrinaggi, segno di una Chiesa in cammino; nell’ascolto della Parola e nel sacramento della riconciliazione; nei gesti concreti di carità, che hanno dato carne alla speranza annunciata. Infatti, abbiamo voluto che ai luoghi giubilari tradizionali – Cattedrali, Santuari, chiese storiche – si aggiungessero altri luoghi significativi, quelli in cui toccare le piaghe di Cristo nella carne dei fratelli e delle sorelle maggiormente provati: gli ospedali, i luoghi di detenzione, le mense, le comunità di accoglienza, i dormitori. In questi luoghi la speranza si è fatta pane spezzato e accoglienza.
Tra i segni più eloquenti di quest’anno giubilare desidero richiamare i vari pellegrinaggi compiuti a Roma, sia dalle Parrocchie, sia dalle Confraternite, come anche quello dei ministranti e dei giovani, per citarne solo alcuni. Ma soprattutto il pellegrinaggio diocesano a Roma, vissuto insieme il 14 maggio scorso. Come Chiesa di Salerno-Campagna-Acerno in più di cinquemila ci siamo messi in cammino verso il cuore della Chiesa universale portando con noi le attese, le fatiche, le speranze nostre e delle nostre comunità, per attraversare la Porta Santa e rinnovare la nostra fede. Tante parrocchie, movimenti, associazioni, famiglie, giovani e anziani hanno viaggiato insieme, in treno e in pullman, pregando, sopportando con pazienza la fatica e i disagi, e condividendo la gioia di essere un unico popolo: davvero un “pellegrinaggio di speranza”. Inoltre, andando a Roma ci siamo sentiti parte della Chiesa Universale e abbiamo potuto riscoprire che nessuno è un'isola e che la speranza ha una dimensione non solo personale, ma fondamentalmente anche comunitaria, cioè ecclesiale. Desidero ricordare e rinnovare quanto allora dissi, concludendo l’omelia: «in questo luogo, davanti alla Confessione di Pietro, mentre preghiamo sulla tomba del primo degli apostoli, ci è chiesto anche di rinnovare la nostra piena e filiale obbedienza a colui – Papa Leone XIV – che ne rappresenta la continuità apostolica e ci conferma nell’essere testimoni autentici del Risorto, segni credibili di quella speranza che non delude. […] In tutta quanta la Chiesa, Pietro proclama ogni giorno: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. San Pietro, roccia della fede, confermaci nella fedeltà a Cristo. Maria, Madre della Chiesa, guidaci sulla via della testimonianza».
Oggi, nella festa della Santa Famiglia, ciò che abbiamo celebrato nel Giubileo è chiamato ad entrare nel nostro quotidiano, nella vita ordinaria delle nostre case. La speranza non può restare solo legata alle grandi celebrazioni o ai momenti straordinari: deve abitare le nostre persone, la vita delle nostre parrocchie e associazioni, i nostri luoghi di lavoro, i nostri quartieri, il nostro territorio. Soprattutto deve abitare le nostre famiglie, definite dal Concilio “Chiese domestiche”: è qui che spesso si pronunciano le prime parole della fede, si imparano il segno della croce e le prime preghiere; è lì che si sperimenta il perdono, la cura dei piccoli, l’attenzione agli anziani, la solidarietà con chi ha più bisogno.
Ogni gesto di fedeltà e amicizia coniugale, ogni figlio accolto con gratitudine, ogni anziano accompagnato con pazienza, ogni perdono reciproco accordato è un atto di speranza, una piccola profezia di futuro. Carissimi, guardando a Gesù, Maria e Giuseppe, in questa domenica dedicata alla Santa Famiglia, affidiamo al Signore le nostre famiglie: quelle serene e quelle ferite, quelle unite e quelle provate da separazioni, quelle che gioiscono per la vita e quelle che piangono per il lutto o per la malattia. Nessuna situazione è esclusa dal raggio della misericordia di Dio; nessuna storia è troppo lontana perché Dio non possa raggiungerla e risollevarla: la speranza è un orizzonte da coltivare particolarmente in loro.
Concludere il Giubileo, fratelli carissimi, significa non chiudere una parentesi, bensì assumersi ora una responsabilità. La speranza ricevuta e alimentata in quest’anno giubilare non può essere trattenuta, ma trasformata in stile di vita e testimoniata a tutti. È tempo di passare dalla celebrazione alla testimonianza, dal pellegrinaggio vissuto insieme al “pellegrinaggio” quotidiano dentro la storia. Anche come piccolo segno di gratitudine verso papa Francesco, che ha fortemente voluto dedicare questo Anno santo alla speranza, termino citando un ampio passaggio tratto dal suo magistero: «Eleviamo il cuore a Cristo, per diventare cantori di speranza in una civiltà segnata da troppe disperazioni. Con i gesti, con le parole, con le scelte di ogni giorno, con la pazienza di seminare un po’ di bellezza e di gentilezza ovunque ci troviamo, vogliamo cantare la speranza, perché la sua melodia faccia vibrare le corde dell’umanità e risvegli nei cuori la gioia, risvegli il coraggio di abbracciare la vita. Di speranza, infatti, abbiamo bisogno, ne abbiamo bisogno tutti. La speranza non delude, non dimentichiamo questo. Ne ha bisogno la società in cui viviamo, spesso immersa nel solo presente e incapace di guardare al futuro; ne ha bisogno la nostra epoca, che a volte si trascina stancamente nel grigiore dell’individualismo e del “tirare a campare”; ne ha bisogno il creato, gravemente ferito e deturpato dagli egoismi umani; ne hanno bisogno i popoli e le nazioni, che si affacciano al domani carichi di inquietudini e di paure, mentre le ingiustizie si protraggono con arroganza, i poveri vengono scartati, le guerre seminano morte, gli ultimi restano ancora in fondo alla lista e il sogno di un mondo fraterno rischia di apparire come un miraggio.
Ne hanno bisogno i giovani, spesso disorientati ma desiderosi di vivere in pienezza; ne hanno bisogno gli anziani, che la cultura dell’efficienza e dello scarto non sa più rispettare e ascoltare; ne hanno bisogno gli ammalati e tutti coloro che sono piagati nel corpo e nello spirito, che possono ricevere sollievo attraverso la nostra vicinanza e la nostra cura. E, inoltre, di speranza ha bisogno la Chiesa, perché, anche quando sperimenta il peso della fatica e della fragilità, non dimentichi mai di essere la Sposa di Cristo, amata di un amore eterno e fedele, chiamata a custodire la luce del Vangelo, inviata a trasmettere a tutti il fuoco che Gesù ha portato e acceso nel mondo una volta per sempre».
Fratelli e sorelle carissimi, adesso rinnoveremo la nostra professione di fede e quindi ci accosteremo all’Eucaristia: è lì la sorgente della speranza che non delude, perché è il Signore stesso che si dona, pane spezzato per la vita del mondo. Ripartiamo da questo altare con il cuore colmo di gratitudine e con un desiderio nuovo: essere, con l’aiuto dello Spirito Santo, famiglie e comunità che, anche nelle notti della storia, continuano ad accendere la piccola, ostinata fiamma della speranza.