Acqua amara: il sistema Alto Calore e il prezzo pagato dai cittadini
Non è un’emergenza, non più. È un disastro annunciato, costruito in silenzio per decenni da una politica incapace di visione e da amministrazioni che hanno trattato l’acqua come un feudo, un pozzo senza fondo da cui attingere per costruire consenso. Oggi quel pozzo è asciutto, ma le bollette devono correre veloci. Il piano Lenzi era semplice semplice, una creatura immaginata da un uomo che ha a che fare con i numeri e con i pareggi della partita doppia. Fare liquidità nel modo più diretto possibile: maggiorazioni del 20,8%, per arrivare, entro il 2029, a un aumento complessivo del 56,34%. Come dire che non c'è verso di sistemare l'azienda e allora, alla vecchia maniera, si devono mettere le mani in tasca ai cittadini. Ecco perché dietro i numeri freddi c’è una storia di mala gestione che ha spinto una società pubblica al collasso, scaricando ogni responsabilità su chi l’acqua la paga, la consuma e troppo spesso non la riceve con la continuità promessa.
L'abilità di un manager e quei confini non scritti da superare
Insomma, un manager è un manager. Quando hai il 50% del tuo emungimento che va in fumo drenando comunque i costi energetici, hai due strade. Fare come tutti gli altri: aspettare che Pantolone paghi o mettere mano al risanamento lacrime e sangue. Già perché c'è un'altra percentuale che "blocca" l'azienda: quel 37,9% dell'intero bilancio annuo drenato dai dipendenti. Che se fossero operai idraulici andrebbe pure bene. Ma dentro l'enorme numero di personale c'è di tutto: sindaci, amici dei sindaci, parenti dei sindaci, sindacalisti, amici dei sindacalisti, parenti dei sindacalisti. Le competenze ci sarebbero pure: ma se arrivi a un debito monstre che supera i duecento milioni di euro vuol dire che quelli che sanno fare le cose stanno zitti e sono nell'angolo. Lenzi dimettendosi ha dimostrato che quella strada non è percorribile. Il risanamento lacrime e sangue passa attraverso la guerra contro il sistema, che in un attimo ti metterebbe alla porta.
Debiti mostruosi, numeri incontrovertibili
Il bilancio 2024 parla chiaro: dopo anni di squilibri strutturali, il debito complessivo di Alto Calore ammontava, a fine 2023, a oltre 211 milioni di euro. Con l’omologa del concordato, a novembre 2024, la cifra si è ridotta a 131,4 milioni, ma non per virtù gestionale: si è trattato di una falcidia contabile, con i creditori chirografari ridotti al 14% e con parte del debito convertito in strumenti finanziari partecipativi intestati ai Comuni soci. Il resto del peso, però, rimane. E per rispettare il piano di rientro, il tribunale e i regolatori hanno imposto che il risanamento passi per la crescita forzata dei ricavi tariffari. Tradotto: cittadini chiamati a colmare i vuoti lasciati da decenni di sprechi, assunzioni clientelari, assenza di manutenzione e incapacità di pianificare.
Una rete che disperde e non serve
Il vero scandalo è nascosto nella rete. Più di 6.300 chilometri di condotte, di cui oltre 5.000 dedicati alla distribuzione, soffrono di vetustà cronica. Ogni giorno, secondo le stime interne, fino al 50% dell’acqua immessa nel sistema si perde lungo il tragitto: tubazioni obsolete, giunti marci, collegamenti mai sostituiti. Non è un numero astratto: significa che metà dell’acqua captata – spesso con costi energetici elevatissimi – non raggiunge mai i rubinetti. E mentre l’azienda dichiara di voler investire in “strumenti di monitoraggio e ricerca perdite”, i cantieri restano fermi o a rilento, intrappolati in procedure burocratiche e in una cronica carenza di liquidità.
Il paradosso delle tariffe
Il regolatore ARERA impone un principio semplice: il servizio idrico deve garantire equilibrio economico-finanziario, con tariffe che coprano i costi di gestione e investimento. Ma ad Avellino e Benevento questo principio è stato distorto: anziché razionalizzare la spesa e tagliare gli sprechi, si è scelta la strada più semplice, quasi automatica, dell’aumento tariffario. Nel 2024, le bollette hanno generato 41,2 milioni di euro di ricavi. Con l’aumento del 20,8% per il 2025, il drenaggio salirà a quasi 50 milioni, mentre nel 2029 si sfioreranno i 65 milioni annui. Quasi 300 euro per utenza, in un territorio con redditi medi tra i più bassi d’Italia. E mentre i ricavi crescono, i costi per il personale – oltre 16,5 milioni annui per 280 dipendenti – restano un macigno, segno di una struttura organizzativa mai ripensata per efficienza e sostenibilità.
Clientelismo e inerzia: il cancro dell’azienda
Dietro le cifre si nasconde una verità nota a tutti, ma mai davvero affrontata. Alto Calore è stata per anni il rifugio del clientelismo politico, una macchina di consenso nelle mani dei Comuni soci, utile a distribuire posti e prebende più che a garantire un servizio moderno ed efficiente. Gli allarmi della Corte dei Conti, le relazioni dei revisori, le accuse pubbliche di conflitto d’interesse e gestione opaca hanno costellato l’ultimo decennio. Ma nulla è cambiato. La politica, quella stessa politica che oggi chiede sacrifici agli utenti, ha lasciato che i debiti crescessero, che le reti collassassero, che i contatori girassero a vuoto, senza mai una strategia industriale seria, senza mai un piano di investimenti degno di questo nome.
Il prezzo dell’acqua negata
Il risultato è un territorio ostaggio. L’acqua che dovrebbe essere un bene comune è diventata terreno di speculazione contabile. Nei comuni dell’entroterra irpino, le interruzioni sono quotidiane: turnazioni, autobotti, rubinetti a secco nelle ore di maggior consumo. Eppure le bollette arrivano puntuali, più care, più aggressive, cariche di interessi e more, come se il servizio fosse impeccabile. È in questa distanza tra ciò che si paga e ciò che si riceve che si misura la frattura tra l’azienda e il suo territorio. Una frattura che alimenta sfiducia, rabbia, disillusione.
Il futuro che non cambia
Il piano concordatario prevede cinque anni per la chiusura dei debiti falcidiati. Cinque anni in cui ogni euro ricavato sarà orientato al risanamento, non al rinnovamento della rete. Solo dopo, forse, si potrà parlare di investimenti reali. Ma il rischio concreto è che, passata l’emergenza, si ricominci daccapo: con reti colabrodo, organici sovradimensionati, scarsa digitalizzazione e zero pianificazione.
Un’inchiesta, una denuncia
Questa non è un’azienda al servizio dei cittadini. È un sistema consolidato che, invece di riformarsi, si è blindato dietro il paravento della “continuità aziendale” e delle prescrizioni ARERA. La verità è che l’acqua dell’Irpinia e del Sannio, abbondante e preziosa, viene gestita come se fosse proprietà privata di un consorzio di potere. E finché i cittadini non alzeranno la voce, finché i sindaci resteranno complici o silenziosi, il ciclo vizioso continuerà: più debiti, più tariffe, meno acqua, meno giustizia.