Era settembre 2024 quando Mario Draghi presentò alla Commissione europea il suo ampio rapporto intitolato “The Future of European Competitiveness”. L’ex presidente della Banca centrale europea parlò allora della necessità di una svolta radicale per rilanciare industria, produttività e investimenti. A distanza di un anno il bilancio appare modesto: delle 383 raccomandazioni formulate, appena l’11 per cento risulta pienamente realizzato. Qualche passo avanti è stato compiuto. In particolare la cooperazione nel settore della difesa ha visto nuovi strumenti comuni di finanziamento, mentre nei trasporti e nelle materie prime critiche l’Unione ha avviato politiche di rafforzamento della catena di approvvigionamento. Anche sul fronte della semplificazione burocratica sono state adottate misure volte a ridurre gli oneri normativi per le imprese.

Molto più complesso lo scenario negli ambiti cruciali individuati da Draghi. L’unione dei mercati dei capitali, considerata essenziale per attrarre investimenti, è rimasta al palo a causa delle resistenze degli Stati membri a uniformare regole su fallimenti, tassazione e aiuti di Stato. Nel settore energetico i prezzi alti, la dipendenza dalle fonti fossili e le difficoltà della transizione ecologica pesano ancora sulla competitività delle imprese. Sul fronte della digitalizzazione, nonostante alcuni progetti avviati, l’Europa resta indietro rispetto a Stati Uniti e Cina, incapace di produrre innovazioni capaci di modificare realmente il panorama industriale. Il giudizio di Draghi resta severo. L’ex premier italiano sottolinea come l’inazione non metta soltanto a rischio la competitività dell’Unione, ma minacci la stessa sovranità europea. Servirebbero, a suo avviso, investimenti aggiuntivi nell’ordine di centinaia di miliardi di euro l’anno, vincoli più stringenti e una governance capace di superare i veti nazionali. Senza un’accelerazione decisa, l’Europa rischia di vedere eroso il proprio modello di crescita e di scivolare in secondo piano nello scenario globale.