Qui abbiamo trovato un cadavere ora ci dormono loro: basta!

Avellino, denuncia shock. Case cadono a pezzi. Nuove presenze nell'hotel dove c'era un cadavere

(Clicca sulla foto di copertina e guarda il servizio video. A fine articolo tutte le foto) Via Francesco Tedesco, Avellino. Cittadini denunciano: viviamo in palazzi fatiscenti. Infiltrazioni, topi. «In quell'hotel è stato trovato un cadavere»

Avellino.  

 

di Andrea Fantucchio 

«Viviamo in case che sono delle tombe. Signor sindaco, venite a vedere: la fogna rotta scarica a due passi dalla cucina. E i palazzi sono tutti fatiscenti: chiazze d'acqua enormi sul soffitto. Guardate là: nell'hotel abbandonato è stato trovato un morto. Dovevano chiuderlo e abbatterlo. Ma, invece, non hanno fatto nulla». La denuncia esasperata di Katya. Residente nelle abitazioni di via Francesco Tedesco ad Avellino. (Clicca sulla foto di copertina e guarda il servizio video. A fine articolo tutte le foto)

In questi quartieri popolari sono alloggiate quarantotto famiglie. Poco distante il Comune lavora alla costruzione di nuove case. Da progetto (appaltato durante l'amministrazione Foti) questi edifici dovrebbero essere assegnati proprio a quei nuclei familiari che hanno vissuto nel degrado tutti questi anni. Ma nelle ultime settimane è spuntata l'ipotesi di farne un centro d'accoglienza temporaneo per immigrati. Il quartiere si è rivoltato.

«Io c'ero – racconta Katya – nella riunione al Comune. E i rappresentanti dei servizi sociali hanno parlato di questa possibilità. E' inconcepibile».

Quello che riprendo con le telecamere è uno spettacolo indegno. Arrivo dal lato del cimitero cittadino. Supero un cantiere (gli edifici della polemica) e mi incammino lungo un salitone. Che sbuca in quello che dovrebbe essere un parco giochi. Oggi è una giungla: giostre arrugginite cancellate dall'erba incolta.

Mi fermo un attimo e poi continuo. Attraverso uno spiazzale fiancheggiato dagli alti palazzi del post terremoto. Strutture ormai fatiscenti. La copertura di metallo è arrugginita in più punti. Alcuni pezzi si accartocciano su se stessi. Ferite visibili del tempo e di una manutenzione non adeguata. Vedo il volto di un ragazzino sbucare da un angolo. Francesco: magro, capelli neri, sguardo vispo e intelligente. Fa segno di avvicinarmi. E' stato lui a contattarmi per “il servizio”.

Giusto il tempo di riprendere un traliccio caduto. Anche questo in buona parte coperto dall'erba incolta.

«E' lì – mi dice la mia piccola guida – dall'inverno. Là c'è la giungla. Ha sommerso pure la Madonnina».

Katya, la zia di Francesco, non è ancora arrivata.

Il servizio giornalistico è nato per mostrare come i cittadini siano costretti a tagliare l'erba e pulire il quartiere in autonomia: il Comune si è dimenticato di loro. Il decespugliatore, acquistato da poco, si è rotto.

Le donne del quartiere, casalinghe che si fanno in quattro per i propri figli, sono a ripararlo.

Ho quindi del tempo per potermi immergere in un mondo spesso invisibile.

Di fronte a me la collinetta con l'hotel incriminato. Dove è stato trovato un cadavere ad Ottobre. Anche lo spazio intorno è un cimitero di cose perdute. Rifiuti gettati ovunque. Di sera, approfittando dell'erba incolta, ignoti vengono a scaricare di tutto. Nel migliore dei casi: giocattoli, bottiglie di vetro e cartoni. Ma vediamo anche batterie, rifiuti edili, oli esausti. C'è un fetore opprimente. Probabilmente umido in decomposizione.

Accedere all'hotel è una passeggiata. Letteralmente. La porta non esiste più. Staccata dai cardini. L'interno: un divano rovesciato, da dietro lo schienale spunta un graffito sulla parete. Si tratta di un ragazzo coi capelli ricci. A terra bottiglie, bicchieri, brik di cartone, piatti. Procedo nel corridoio e arrivo alla stanza in fondo. Quella usata per dormire. C'è un materasso sul pavimento. Le mura dell'edificio sono verniciate di rosso. E a terra, gettata in un angolo, una bambola rotta.

Torno all'esterno. Francesco è rimasto sull'uscio.

Mi racconta dei suoi progetti di vita. Vuole andare all' istituto alberghiero. Gli piace cucinare. Ma adora anche “fare i video”. Mi dice che lo scorso anno, con un amico, ha intervistato alcune signore del quartiere.

Aggiunge: «Qui d'estate è pieno di bambini e ragazzi. Ce ne sono anche di piccolissimi. Giochiamo a pallone sotto i portici. Vicino alla giungla. O andiamo in bicicletta. Purtroppo siamo abbandonati da tutti».

L'ultima frase è quella che mi fa più male. Una volta ho letto di come gli spazi nei quali cresciamo da bambini segnino la persona che diventiamo da adulti. Francesco è un ragazzo che è stato obbligato a combattere fin da subito. A vivere in un ambiente che vuole ostinatamente cambiare perché ne percepisce l'abbandono.

Grazie alla sua famiglia probabilmente trasformerà questa forza in una marcia in più che si porterà dietro per tutta la vita. Ma che ne sarà dei ragazzi che non hanno questa fortuna? Sono loro quelle persone che stiamo perdendo.

L'amministrazione dovrebbe sentirsi ferita ogni qualvolta uno di questi giovani cerca di fuggire dalla città. Ogni bandiera bianca alzata è un pezzo di Avellino che muore.

Con Francesco siamo arrivati all'ingresso che dà sul retro dell'hotel. Di fronte a noi un cancello azzurro mezzo rotto. Ci abbassiamo e passiamo dal buco creato da un pezzo di inferriata rimossa. Anche l'accesso al primo piano della struttura è semplice: la porta è spalancata.

Sono dentro. Mi guardo due volte intorno. E vengo sommerso dai particolari: tavoloni ricolmi di oggetti che raccontano le due vite dell'edificio.

Ci sono libri di filosofia e gialli, pennelli e tempere che appartengono a un precedente inquilino.

«Si tratta – mi dice Francesco – di un pittore girovago. Originario di Solofra. Lo aiutavo sempre a riempire l'acqua».

Sullo stesso tavolo piatti, bottiglie, scatole di biscotti e altri dolciumi.

«Quelli lì – mi spiega Katya che ci ha raggiunto – sono usati degli immigrati che vengono qui di sera. Non ho nulla contro di loro. Anzi, spesso gli ho portato da mangiare. Ma quando girano per il quartiere abbiamo paura. Non sappiamo chi sono. Siamo donne e madri. Credo sia una reazione comprensibile».

Usciti dall'hotel torniamo di sopra. Ecco arrivare il decespugliatore. Si inizia a pulire. Attirata dal rumore, arriva la signora Filomena.

Un'anziana arzilla e simpatica: qualche ruga sotto lo sguardo sereno, sorriso facile. Ma quando le parlo del quartiere il sopracciglio si inarca.

«Guardate là – dice indicando il retro delle abitazioni popolari – è una porcheria. Gli alberi arrivano con i rami in casa mia. E col caldo stanno uscendo topi e serpenti. Ci sono certe “topesse”».

Di fianco a Katya c'è un altro bambino. Piccolo e biondissimo. Non arriva neppure a metà di una scopa. Ma vuole partecipare. Quando vede la telecamera si nasconde dietro le spalle di Katya. Fingiamo di allontanarci. Lui riprende a lavorare.

Una fotografia stupenda alla quale manca la cornice. Questi cittadini che si spendono anima e cuore per il quartiere, come quelli di Valle e Picarelli dei quali vi abbiamo già parlato, sono le cellule della speranza. Non ancora malate di disfattismo. L'altro cancro della città. Ma quanto potranno sopravvivere?

Rigiriamo la domanda agli amministratori. Si inizi con lo stralcio dell'erba cominciato in altre aree di Avellino. Aumentino i controlli. Qui le forze dell'ordine non sanno cosa siano. L'amministrazione completi i progetti destinati alla rigenerazione urbana. Francesco e i suoi coetanei hanno disperatamente bisogno di un futuro diverso.

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