La Corte Costituzionale "salva" il Jobs act. I giudici riuniti oggi in camera di consiglio, hanno dichiarato inammissibili le questioni sollevate dalla Corte d'appello di Napoli sulla disciplina dei licenziamenti collettivi. La Consulta, fa sapere l'Ufficio stampa in attesa del deposito della sentenza, ha ritenuto che la motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza delle questioni sia insufficiente e che non sia stato chiarito il tipo di intervento richiesto alla Corte. A sollevare il caso erano stati i giudici di Napoli secondo i quali la riforma del mercato del lavoro voluta dal governo Renzi avrebbe creato una ingiustificata disparita' di trattamento fra i lavoratori. La violazione riguarda il principio di equaglianza che vale per tutti i cittadini. Il Jobs Act infatti prevede che gli occupati in servizio prima del 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore della riforma) non possono essere licenziati senza giusta causa.In caso di violazione il datore di lavoro e' costretto a riassumerli. Quelli ingaggiati successivamente possono essere licenziati e hanno solo diritto ad un adeguato indennizzo. Secondo i magistrati napoletani si era realizzato "un irragionevole bilanciamento tra i contrapposti interessi del datore di lavoro ad una flessibilita' in uscita e del prestatore alla conservazione del posto di lavoro", nonche' una "lesione della garanzia previdenziale". E non finiva qui: per la Corte d'appello partenopea l'inadeguata tutela si accompagnerebbe anche a un rimedio processuale dotato di minore efficacia dal momento che i lavoratori esclusi dal rito acceleratoi troverebbero penalizzati dalla maggiore durata dei tempi di definizione del giudizio. La Consulta ha giudicato infondati tutti questi rilievi.C'e' da dire che in tutti questi anni la Corte Costituzionale e' stata piu' volte investita dai ricorsi relativi al Jobs Act. Le sue decisioni, molto spesso, hanno ricevuto una interpretazione forzata. Soprattutto i sindacati hanno privilegiato la lettura "negazionista" equiparando, tutte le volte che e' stato possibile, le sue decisioni come bocciature della riforma introdotta cinque anni fa dal governo Renzi. In realta' l'impostazione di fondo della legge non e' mai stata messa in discussione. La Consulta ha solo apportato dei miglioramenti a cominciare dall'indennita' da riconoscere ai lavoratori che vengono licenziati. La legge prevede il pagamento di una penale pari a 2 mensilita' per ogni anno di anzianita' da un minimo di 4 ad un massimo di 24 mensilita'. Un automatismo che la Corte Costituzionale ha rifiutato in nome della dignita' del lavoratore.
Un invito all'imprenditore a essere generoso, non certo una bocciatura della legge. Tuttavia non si puo' dire che gli interventi della Consulta siano stati irrilevanti. Nel bene o nel male hanno demolito la costruzione che stava alla base del Jobs Act. Vale a dire il contratto a "tutele crescenti" che rappresenta il cuore politico e simbolico della riforma del 2015. E' stato il prezzo da pagare ai sindacati e alle forze politiche contrarie ad ogni forma di liberalizzazione del mercato del lavoro. In molti casi nostalgici dell'Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Vale a dire la norma che ammetteva i licenziamenti solo in caso di giustificato motivo (e a stabilirne l'esistenza doveva essere un giudice).
In effetti il governo gialloverde, all'inizio di questa legislatura e' intervenuto sul Jobs Act attraverso il Decreto dignita'. Una modifica che Luigi Di Maio, ministro del Lavoro dell'epoca, ha pubblicizzato come il primo passo per il superamento del Jobs Act allo scopo di restituire al lavoratore la dignita' perduta. In realta' il governo si e' limitato a seguire la strada gia' tracciata dalla Corte Costitituzionale. E' stata cosi' innalzata l'indennita' di licenziamento portandola sei mesi come minimo e 36 come massimo. Per il resto il decreto si e' impegnato a irrigidire i contenuti dei contratti a tempo determinato favorendo la trasformazione in impieghi a tempo pieno. (ITALPRESS).
