La frase del Papa colpisce per la sua radicalità: “La speranza cristiana non nasce nel rumore, ma nel silenzio di un’attesa abitata dall’amore”. Un invito a guardare oltre l’euforia del momento, a leggere la storia come un percorso che, anche nell’ombra, prepara la vita. Eppure, mentre queste parole risuonavano in Vaticano, a Gaza altri bambini morivano sotto le macerie o di denutrizione. Lì, il silenzio non è abitato dall’amore, ma da un’assenza: di cibo, di cure, di futuro. Può esserci spazio per la speranza in un contesto così? Forse sì, ma a una condizione: che non resti un concetto astratto, buono per consolare i vivi senza cambiare la sorte dei morti. La speranza, se non diventa azione politica e responsabilità etica, rischia di trasformarsi in un alibi.
La contraddizione è evidente. Da un lato la promessa che, anche nel sepolcro, Dio prepara la sorpresa più grande; dall’altro, la realtà di un popolo condannato a un Sabato Santo senza Pasqua. Chi guarda da fuori può scegliere: aggrapparsi al linguaggio della fede, o assumere la sfida di non lasciare che il dolore venga normalizzato. La speranza non è solo attendere che qualcosa cambi. È decidere di non accettare che la fame sia usata come arma, che i bambini vengano trasformati in scudi umani o in statistiche di guerra. Non basta credere che un giorno “Dio farà nuove tutte le cose”: serve domandarsi se noi, oggi, stiamo facendo qualcosa per non tradire i più deboli. Così le parole del Papa diventano, per chi non vuole rifugiarsi nell’illusione, uno specchio: ci costringono a chiederci se la speranza che proclamiamo è davvero viva, o se è soltanto il lusso di chi non sente sulla pelle la morte che cade dal cielo.
