Quando Kennedy si scagliò contro l'idea malata del Pil

Fratello dle Presidente assassinato, Robert non credeva che il prodotto fosse sinonimo di felicità

Era il 18 marzo del 1968 e Robert Francis Kennedy teneva un discorso alla Kansas University. Fu uno dei discorsi che segneranno la storia della retorica moderna, non solo americana. RFK si scagliò contro il PIL come misura universale di felicità, come unico metro di giudizio della società, misura sulla quale ancora oggi ci condanniamo ad un dibattito continuo e sterile.

Robert Francis Kennedy era un politico sensibile alle questioni sociali, attento alle classi più popolari della società statunitense e vicino alle lotte dei neri americani. Rispetto al fratello, il Presidente John Fitzgerald Kennedy, era meno icona e molto più vero nelle sue battaglie e nelle sue convinzioni.

Nel 1968 era candidato alle primarie del Partito Democratico USA e le avrebbe vinte, era quasi pronto per la Casa Bianca e se ci fosse arrivato la storia dell’America sarebbe stata diversa.

Ma la  notte tra il 4 ed il 5 giugno del 1968, dopo un incontro con i suoi sostenitori per festeggiare la vittoria delle primarie in California, tenutosi nella sala da ballo dell’Hotel Ambassador di Los Angeles,  Robert Francis Kennedy viene ucciso in un agguato nelle cucine dall’albergo mentre era scortato dagli uomini delle sicurezza che lo stavano facendo uscire dalla porta secondaria.

L’agguato avvenne davanti ai reporter e alle telecamere che lanciarono le immagini in tutto il mondo. David Anthony Kennedy, il figlio di Bob di appena 12 anni, assistette alle all’assassinio del padre in diretta televisiva. Il piccolo Kennedy ne rimarrà traumatizzato e non si riprenderà più da quello choc, morirà a soli 29 anni per overdose.

Un altro Kennedy assassinato, un altro mistero irrisolto dell’America. L’attentatore venne arrestato immediatamente. Sirhan Sirhan, un giordano di origini palestinesi. L’uomo dichiarerà: “L’ho fatto per il mio paese“.

Ma la stessa nebbia di dubbi e di incongruenze che si era addensata sull’assassinio di JFK avvolge la dinamica dell’omicidio del fratello. Il revolver di Sirhan aveva un caricatore di 8 colpi, ma nelle registrazioni si odono chiaramente almeno 13 colpi ed almeno un paio di questi sono così ravvicinati da lasciare immaginare di essere stati sparati da due armi diverse. 

Nasce dunque la teoria di un secondo sicario che da allora continua a tormentare la storia americana che sembra assumere le sembianze del thriller quando ci sono di mezzo i Kennedy.

Di certo quella svolta che Bobby avrebbe garantito agli USA a qualcuno poteva dare fastidio. Quella visione molto vicina alle classi più indigenti, quel collegamento diretto con il movimento per i diritti umani e quel 1968 che iniziava ad incendiare le piazze dell’intero pianeta rendevano Bobby un candidato scomodo per chi voleva un’America immutata è ferma nelle sue arretratezze culturali. Le condizioni storiche condizioni, abbinate al carattere combattivo di RFK e all’onda emotiva, ancora forte in tutto il paese, suscitata dall’omicidio del fratello, avevano messo in allarme le forze più reazionarie e conservatrici di un’America che era in piena Guerra Fredda. 

Gli Stati Uniti con Bobby Kennedy presidente sarebbero stati quel Paese immaginato e sognato nei due anni della presidenza del fratello. Con RFK l’America avrebbe assunto un volto diverso, umano, libero e meno diseguale. Ma no gli fu concesso.

Le parole che pronunciò Bobby quel 18 marzo del 1968 alla Kansas University restano però scolpite nelle menti di tutti coloro convinti che sull’economia, sui calcoli, sulle cifre e sulle statistiche deve sempre dominare la politica ed il buonsenso.

“Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni.
Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo.
Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.
Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi.
Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.
Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani.”

a cura di Claudio Mazzone