1992 il discorso di Craxi che segnò la fine della I Repubblica

"Non c'è nessuno in quest’Aula che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario”

1992 il discorso di craxi che segno la fine della i repubblica

Il 3 luglio del 1992 Bettino Craxi tenne un discorso alla Camera dei deputati per la fiducia al governo Amato che ha segnato la storia italiana. In quel discorso l’uomo che era diventato il simbolo di un regime fondato su un intreccio di finanziamenti irregolari, corruzione, tangenti e faccendieri, che stava cadendo, mosse accuse pesanti all’intero sistema istituzionale italiano, riportando al centro del parlamento quella polvere che per decenni era stata nascosta sotto il tappeto dell’omertà politica. Quell’uomo che oggi qualcuno prova a santificare mentre altri descrivono come il demonio, dimostrò di essere solo un leader del suo tempo, che aveva partecipato e impersonato i limiti e le storture di un sistema tanto diffuso quanto sbagliato e corrotto. 

L’Italia è il Paese dove non si fanno mai i conti con la propria storia, dove i passaggi storici non lasciano mai un segno, dove i processi,sia politici che giudiziari, non finiscono, non si chiudono, lasciando vuoti che non si riempieno. Tangentopoli è uno di quei processi politici e storici con il quale gli italiani non hanno mai davvero fatto i conti. Un processo che ha fatto crollare un sistema di potere che sembrava indistruttibile e che aveva infiltrato ogni comparto dello Stato. Molti lo hanno ridotto ad un mero problema di corruzione, ad una questione che coinvolgeva esclusivamente i potenti, la politica, la casta. Tangentopoli invece mise in luce un aspetto culturale e antropologico della corruzione italiana che non riguarda solo i potenti ma che è un elemento culturale di un’Italia che ancora oggi ha dimenticato il merito e che incentiva le scorciatoie. 

Tangentopoli è finita quando ha iniziato a toccare le persone comuni, quando chi il 30 aprile del 1993 lanciò le monetine contro Craxi che usciva dall’hotel Raphael si scoprì parte di un sistema che non era solo quello delle tangenti miliardari ma anche quello della piccolissima corruzione, della raccomandazione, delle multe tolte agli amici. 

Oggi a 20 anni dalla scomparsa del leader socialista, tra chi vorrebbe santificare Craxi e chi ancora lo vede come l’unico corrotto, c’è un’italia incapace di analizzare il suo passato e di storicizzarlo. Nel discorso di Craxi c’è tutta la tensione di quei tempi che oggi sembra solo sopita.

Nella vita democratica di una Nazione non c’è nulla di peggio del vuoto politico. Da un mio vecchio compagno ed amico che aveva visto nella sua vita i drammi delle democrazie, io ho imparato ad avere orrore del vuoto politico. Nel vuoto tutto si logora, si disgrega e si decompone. In questo senso ho sempre pensato e penso che un minuto prima che una situazione degeneri, bisogna saper prendere una decisione, assumere una responsabilità, correre un rischio. Non credo, Onorevole Amato, d’essere stato il solo ad aver tirato un sospiro di sollievo il giorno in cui Lei ed i suoi ministri avete giurato nelle mani del Capo dello Stato. Sono proprio convinto che il medesimo sentimento ha provato la grande maggioranza del Paese. Lo hanno di certo provato tutti coloro che avvertivano il rischio di una crisi troppo aspra e confusa, troppo prolungata, e valutavano il peso delle conseguenze ch’essa aveva già provocato e le più gravi che ancora avrebbe finito con il determinare. La concretezza, la serietà e la sobrietà dei primi passi ch’Ella ha già compiuto ottenendo la fiducia del Senato, confermano la buona scelta del Capo dello Stato e rendono ancor più convinta la fiducia che ci apprestiamo a dare in questa Assemblea al Suo governo ed al Suo programma di governo. Nell’insieme, molto variegato, delle voci che La stringono d’assedio con i loro no, non sono fortunatamente mancati anche i buoni consigli, i propositi costruttivi, qualche apprezzamento, qualche disponibilità ad una collaborazione parlamentare. Ed è questa certamente una buona cosa se così effettivamente sarà. Chi invece ha definito il suo governo un governo “piccolo – piccolo”, ha solo dato prova di uno stile “piccolo – piccolo” usando, per la verità, argomenti così piccoli che al loro confronto il Suo Governo appare un gigante. Onorevole Presidente del Consiglio, so bene che a Lei non manca né l’esperienza, né la competenza necessaria per distinguere i buoni argomenti critici, che possono avere un loro fondamento ed una loro logica, dagli argomenti pretestuosi e rumorosi che, come i sassi gettati nell’acqua, fanno solo cerchi sempre più larghi che poi scompaiono. Se crede, si conforti pensando a quanto capitò a me, quando ebbi la ventura di divenire il primo presidente socialista della storia del nostro paese. Fui salutato allora come «pericoloso per la democrazia» dall’Onorevole Berlinguer, per poi sentire in quegli anni l’Onorevole Occhetto proclamare la necessità, cito testualmente, di «spezzare l’infernale spirale della rincorsa a destra» e di combattere «i sogni decisionisti ed impotenti», sino a farneticare della presenza di «interventi autoritari» e di «elementi di regime e di gollismo strisciante». Già allora, di rincalzo, tuonava da par suo il direttore di “Repubblica”, che nell’83 definiva quel governo: «Il ministero più partitocratrico che mai si fosse visto...». Mentre l’inserimento dell’Onorevole Scalfaro nella compagine governativa come Ministro degli Interni veniva considerato un «episodio squallido». Il Suo Governo si presenta oggi con una base parlamentare ristretta e tuttavia può contare in partenza sulla maggioranza dei voti parlamentari. Vi sono diversi studi nei quali si può leggere come in un ampio raggio delle democrazie parlamentari di tutto il mondo, i gabinetti di minoranza hanno costituito circa un terzo di tutti i governi del dopoguerra. In Italia, una maggioranza limitata viene invece considerata e trattata come una minoranza anche se l’esperienza italiana di tante legislature sta a dimostrare che l’ampiezza delle maggioranze non corrisponde affatto ai risultati legislativi. Sta di fatto che dopo il risultato elettorale del 5 aprile che aveva ridotto, principalmente a causa di una sensibile perdita della DC, la rappresentanza parlamentare della formula di coalizione e di governo dell’ultimo anno della legislatura, sarebbe stato di certo più utile e più ragionevole realizzare una coalizione più ampia. Questa possibilità non si è concretata perché non si sono mai viste insieme tante disponibilità da un lato e tante indisponibilità dall’altro. Mai la dialettica politica aveva registrato insieme tante aperture e tante chiusure, tante offerte e tanti rifiuti. Difficile indagarne tutte le cause. Esse sono certamente varie, diverse e differenti tra loro. Di certo, questa rigidità non è apparsa affatto derivare da insanabili divergenze di ordine programmatico tra le forze che avrebbero potuto ricercare e trovare un terreno comune di intesa ed una collaborazione anche graduata. Un programma è sempre frutto di una trattativa. Lo si accetta o lo si respinge dopo aver condotto e sperimentato un negoziato. Non c’è stata invece nessuna base di trattativa e nessun negoziato, ci sono stati prevalentemente dei veti e delle pregiudiziali, con l’illustrazione di argomenti e di condizioni, varie e variabili, tutt’altro che convincenti. Viene fatto di ripetere con il grande inglese: «Una causa debole e ingiusta non ammette trattative (Enrico IV – Parte II)». In particolare, dall’area delle forze che costituivano la precedente formula di governo sono stati rivolti tanto al PDS che al PRI insistenti inviti. Ciò è stato fatto anche in forma tale da collocare questi partiti, insieme o separatamente, in una notevole posizione arbitrale di forza ed influenza. Il tutto come si sa ha finito solo con il girare su se stesso. Debbo supporre che tutto ciò è avvenuto ed avviene poiché le cose che avvengono non possono non avere un qualche senso politico, in attesa di un giorno che verrà e di un messia che non è ancora arrivato. Ed è così che, mentre da un lato si protesta per il ritorno ad un vecchio equilibrio e ad una formula considerata prematuramente morta e sepolta, dall’altro tutti hanno potuto costatare che non si sono fatte avanti né ipotesi di coalizione diverse, né alternative concrete realistiche, praticabili, salvo, per la verità, il delinearsi sullo sfondo delle sagome di ipotesi tecniche e istituzionali, buone forse a governare solo fasi di transizione e di brevissimo periodo. Si è così alla fine rinsaldato un legame di solidarietà, che per la verità non si era mai interrotto tra i quattro partiti della precedente maggioranza ed ha ripreso corpo la formula precedente con il concorso della SVP e dell’Union Valdotain e di altri illustri parlamentari. Essa si presenta, allo stato delle cose, come la sola concretamente possibile, la sola disponibile a prendere su di sé le difficili responsabilità del momento per porre fine ad un vuoto politico, per dare un governo al Paese, per evitare un avvio inconcludente e disastroso della legislatura. È stata un’assunzione di responsabilità inevitabile, necessaria, doverosa. È una soluzione destinata ad andare incontro a molte difficoltà che si potranno superare se la solidarietà tra le forze politiche si mostrerà reale e non apparente ed anche e meglio ancora se i dialoghi possibili si riveleranno effettivamente tali. Una soluzione che avrà al contrario vita tormentata, corto respiro, e raggio d’azione limitato se la coalizione a quattro risulterà in concreto essere o costretta ad essere a cinque, a sei, a sette, a causa delle divisioni che si potrebbero manifestare all’interno dei partiti della coalizione. Certo è che sarà proprio in tutta questa complessa e difficile fase di avvio che si decideranno le sorti della legislatura. Una legislatura che ha un grande dovere cui assolvere e che ha di fronte a sé compiti di eccezionale portata. Sono doveri e compiti che derivano in primo luogo da una crisi che non è una semplice crisi politica di forze e di rapporti e relazioni tra le forze. Essa è in realtà la profonda crisi di un intero sistema. Del sistema istituzionale, della sua organizzazione, della sua funzionalità, della sua credibilità, della sua capacità di rappresentare, di interpretare e di guidare una società profondamente cambiata che deve poter vivere in simbiosi con le sue istituzioni e non costretta ad un distacco sempre più marcato. Del sistema dei partiti, che hanno costituito l’impianto e l’architrave della nostra struttura democratica, e che ora mostrano tutti i loro limiti, le loro contraddizioni e degenerazioni al punto tale che essi vengono ormai sistematicamente screditati ed indicati come il male di tutti i mali, soprattutto da chi immagina o progetta di poterli sostituire con simboli e poteri taumaturgici che di tutto sarebbero dotati salvo che di legittimità e natura democratica. Sono immagini e progetti che contengono il germe demagogico e violento di inconfondibile natura antidemocratica. È vero che nel tempo si sono accumulati molti ritardi per tanti fattori negativi, per miopia, velleitarismo, conservatorismo. Tutto ciò è avvenuto in modo tale che il logoramento del sistema ha finito con il progredire inesorabilmente come non era difficile prevedere. Ora non c’è più molto tempo a disposizione, ci sono dei processi di necrosi che sono giunti ormai ad uno stadio avanzato. Il Parlamento deve reagire alto e lontano dando innanzitutto l’avvio ad una fase costituente per decidere rapidamente riforme essenziali di ammodernamento, di decentramento, di razionalizzazione. Serviranno a ridare efficienza e prestigio alle Camere, a rompere un centralismo dello Stato, per parte sua duro a morire, rafforzando i poteri e l’autonomia delle Regioni, come suggeriamo nel nostro programma, sino ai limiti del federalismo, a garantire autorevolezza e stabilità all’Esecutivo. Bisognerebbe porre mano subito alla riforma delle leggi elettorali con uno sguardo rivolto ai modelli ed alle esperienze delle democrazie europee ed uno rivolto alle tradizioni della democrazia italiana. Nella vita e nella organizzazione dello Stato si sente non solo un grande bisogno di un più ampio decentramento ma anche una necessità urgente di accelerare i processi di modernizzazione, di semplificazione, di flessibilità, nei rapporti con i cittadini, con le attività produttive, con la vita sociale. C’è un problema di moralizzazione nella vita pubblica che deve essere affrontato con serietà e con rigore, senza infingimenti, ipocrisie, ingiustizie, processi sommari e grida spagnolesche. È tornato alla ribalta, in modo devastante, il problema del finanziamento dei partiti, meglio del finanziamento del sistema politico nel suo complesso, delle sue degenerazioni, degli abusi che si compiono in suo nome, delle illegalità che si verificano da tempo, forse da tempo immemorabile. In quest’Aula e di fronte alla Nazione, io penso che si debba usare un linguaggio improntato alla massima franchezza. Bisogna innanzitutto dire la verità delle cose e non nascondersi dietro nobili e altisonanti parole di circostanza che molto spesso, e in certi casi, hanno tutto il sapore della menzogna. Si è diffusa nel Paese, nella vita delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni, una rete di corruttele grandi e piccole che segnalano uno stato di crescente degrado della vita pubblica. Uno stato di cose che suscita la più viva indignazione, legittimando un vero e proprio allarme sociale e ponendo l’urgenza di una rete di contrasto che riesca ad operare con rapidità e con efficacia. I casi sono della più diversa natura, spesso confinano con il racket malavitoso, e talvolta si presentano con caratteri particolarmente odiosi di immoralità e di asocialità. Purtroppo, anche nella vita dei partiti molto spesso è difficile individuare, prevenire, tagliare aree infette, sia per la impossibilità oggettiva di un controllo adeguato, sia, talvolta, per l’esistenza ed il prevalere di logiche perverse. E così, all’ombra di un finanziamento irregolare ai partiti, e ripeto, al sistema politico, fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e di concussione, che come tali vanno definiti, trattati, provati e giudicati. E tuttavia, d’altra parte, ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I partiti, specie quelli che contano su appartati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’Aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro. E del resto, andando alla ricerca dei fatti, si è dimostrato e si dimostrerà che tante sorprese non sono in realtà mai state tali. Per esempio, nella materia tanto scottante dei finanziamenti dall’estero, sarebbe solo il caso di ripetere l’arcinoto “tutti sapevano e nessuno parlava”. Un finanziamento irregolare ed illegale al sistema politico, per quanto reazioni e giudizi negativi possa comportare e per quante degenerazioni possa aver generato, non è e non può essere considerato ed utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica, per creare un clima nel quale di certo non possono nascere né le correzioni che si impongono né un’opera di risanamento efficace, ma solo la disgregazione e l’avventura. Del resto, nel campo delle illegalità, non ci sono solo quelle che possono riguardare i finanziamenti politici. Il campo è vasto, e vi si sono avventurati in molti, come i fatti spero si incaricheranno di dimostrare aiutando tanto la verità che la giustizia. A questa situazione va ora posto un rimedio, anzi più di un rimedio. È innanzitutto necessaria una nuova legge che regoli il finanziamento dei partiti e che faccia tesoro dell’esperienza estremamente negativa di quella che l’ha preceduta. Altre proposte ed altri rimedi sono già sul tavolo. Vi aggiungeremo le nostre, sollecitando un dibattito parlamentare chiarificatore, serio e responsabile, su tutti gli aspetti di questa questione. Se la legislatura imbocca la sua strada maestra, allora non troverà il tempo per fermarsi. Nel lavoro costituente, nelle decisioni di riforma, l’allentamento delle rigidità, delle contrapposizioni e delle incomunicabilità, daranno ossigeno all’intero sistema e daranno forza alle ragioni di tutti. Ne trarranno giovamento i partiti che vogliono percorrere una stagione di rinnovamento interno, di revisione degli statuti, di riforma alle regole, di ricambio degli uomini, di promozione di nuove associazioni tra loro e di più strette alleanze. Anche il Governo sarà aiutato ad avanzare lungo i binari del buon programma che si è dato dovendo affrontare le emergenze che ci stringono d’assedio: in primo luogo quella economica e quella criminale. Se così non sarà, e certo non me lo auguro, la sorte della legislatura scivolerà su di un piano inclinato e sarà allora rapidamente segnata. Non me lo auguro innanzitutto per il Paese. Per la sua economia che ha bisogno di un clima di operosità, di fiducia e di collaborazione sociale. Un’economia che deve essere aiutata a ritrovare iniziativa e competitività, per i livelli occupazionali, a cominciare dall’occupazione nell’industria che ha già ricevuto duri colpi ed altri può purtroppo riceverne ancora. Per il riequilibrio della finanza pubblica che è urgente, necessario, non rinviabile. Un record mondiale negativo che in questi anni dobbiamo riuscire a toglierci di dosso nell’interesse di tutti, levando dal nostro futuro una grave incognita ed una tagliente spada di Damocle. Ridefinire e riselezionare la spesa sociale e le protezioni dello Stato sociale senza smantellarlo secondo le invocazioni dei peggiori conservatori. Anche questo è necessario, urgente, non rinviabile nell’interesse soprattutto dei più deboli, di coloro che più sono bisognosi di sostegno e di protezione. Sono questi gli anni del passaggio verso un’Europa più unita, più integrata e, augurabilmente, più coesa. E tuttavia, quando si sentono magnificare i nuovi traguardi europei come se si trattasse di una sorta di Paradiso terrestre che ci attende, c’è solo da rimanere sconcertati. È naturalmente fondamentale che l’Italia riesca a raggiungere il passo dei suoi grandi partners europei e che per far questo si mostri capace di compiere tutti gli sforzi che debbono essere compiuti. Diversamente si produrrebbe una frattura di portata storica nelle linee di fondo del nostro progresso. E tuttavia, dobbiamo insistere a chiederci quale Europa vogliamo e verso quale Europa vogliamo indirizzarci. Non verso un’Europa sottratta ad ogni controllo dei poteri democratici. Non verso politiche determinate solo sulla base di criteri macroeconomici, indifferenti di fronte alla valutazione dei costi sociali. Un’Europa fondata su di un mercato unico, aperto e libero ma il cui sviluppo non contraddica il principio che gli anglosassoni definiscono come “il mercato più la democrazia”. Non un’Europa in cui la modernizzazione diventi brutalmente sinonimo di disoccupazione. Un’Europa dove le rappresentanze sindacali abbiano un loro spazio, una loro dignità ed una loro influenza. Un’Europa che guardi al proprio riequilibrio interno ma anche all’altra Europa che si è liberata dal comunismo ma che rischia di restare ancora separata e divisa non più, come è stato detto, «dalla cortina di ferro ma dal muro del danaro». Un’Europa capace di una vera politica estera e di una più larga apertura verso il mondo più povero che preme alle porte dell’Europa e che ha assolutamente bisogno di un acceleratore che gli consenta di uscire dalla depressione, dalla stagnazione e dal sottosviluppo, senza di che le ondate migratorie diventeranno sempre più incontrollabili. Sono gli interrogativi che ci poniamo, partendo dalla nostra fede nelle democrazie europee, dalle nostre convinzioni europeistiche, dal contributo che abbiamo direttamente dato per aprire la strada ad un nuovo capitolo della costruzione europea. Onorevole Presidente del Consiglio, nella vita delle Nazioni e nella storia, gli eroi e i martiri sono sempre stati un grande esempio ed una formidabile leva morale. Nel loro nome si sono potute realizzare grandi imprese. Il giudice Falcone è ora un eroe ed un martire del nostro tempo. Spero che il Governo, le forze dell’ordine, la magistratura, tutti gli apparati dello Stato, uomini liberi e coraggiosi, cittadini di buona volontà, riescano a realizzare nel suo nome una grande e vittoriosa impresa contro le grandi organizzazioni criminali. Essi avranno in questa lotta tutto il nostro sostegno, la nostra collaborazione, la nostra solidarietà. Onorevole Presidente, non è solo il Suo Governo a trovarsi su di un crinale difficile e lungo un sentiero stretto. È il sistema della democrazia italiana nel suo insieme che è giunto ad un punto particolarmente critico. Pensando a questo mi è tornata alla mente una famosa frase che il Generale De Gaulle pronunciò di fronte ad una grave crisi politica in cui era precipitata l’Italia: «L’Italie est en l’heure de la Quatrième». E si riferiva al passaggio traumatico tra la Quarta Repubblica in disfacimento e la Quinta. Voleva essere una frase profetica ma non lo fu. La democrazia italiana ha sempre superato le sue crisi, ha percorso vicende alterne di involuzione e di progresso ma le sue istituzioni non sono mai state travolte da un evento traumatico. Non so cosa si propongano oggi tutti coloro che mirano al peggio, che alimentano ogni forma di qualunquismo, che utilizzano la politica, l’informazione, lo spettacolo, come mezzi puramente distruttivi. Penso che in un momento così teso e così difficile siano più che mai necessarie una grande consapevolezza ed una grande responsabilità democratica. Sono necessarie per voltare le pagine che debbono essere voltate e per guidare ed accompagnare il sistema, con fermezza e con serenità, verso un nuovo capitolo della nostra storia democratica. Sono certo che il Suo Governo possiede questa consapevolezza e che si adopererà per svolgere con impegno la parte e il compito che gli spetta. Anche questa è una delle buone e fondamentali ragioni per le quali, Signor Presidente, Le assicuriamo ad un tempo la nostra fiducia e la nostra attiva collaborazione.