Isochimica, «Tutto quell'amianto scaricato nel Fenestrelle»

Testimonianze choc degli operai. «Accelerata» al processo: rinuncia a 162 testimoni.

Giorno delle deposizioni di alcuni ex operai dell'Isochimica. Testimonianze ricche di particolari sull'assenza di norme di sicurezza relative al trattamento dell'amianto. La Procura ha poi dato "un'accelerata" al processo rinunciando a 162 testi.

Avellino.  

 

di Andrea Fantucchio 

«Abbiamo visto scaricare l'amianto nel corso d'acqua del Fenestrelle ad Avellino. L'autista del mezzo che lo trasportava ci ha guardati minacciosi e noi siamo andati via. Non l'avevo mai raccontato. Ma qui, per rispetto di tutti quelli che sono morti, non posso più trattenermi». La voce rotta dalle emozioni di chi questo processo lo ha atteso trent'anni. E può dire, con certezza, di aver lottato come protagonista per portare il «caso Isochimica» in un'aula di tribunale: dove ventisette persone devono rispondere a vario titolo di omicidio colposo plurimo, disastro ambientale, omissione in atti d'ufficio.

Carlo Sessa, ex operaio della «fabbrica della morte», era uno dei testimoni più attesi. Nell'aula bunker del carcere di Poggioreale le sue parole hanno l'effetto di un sasso lanciato nello stagno: una serie di increspature nelle anime dei presenti che hanno perso amici e parenti "uccisi" dall'amianto e che più volte non trattengono un'eco di approvazione mista a rabbia che si solleva dal fondo dell'aula.

«Elio Graziano era amico di mio padre. E una volta mi disse: so che con te i miei collaboratori e anche io abbiamo sbagliato a licenziarti. Quanto vuoi? Aveva davanti un blocchetto degli assegni e una penna. Aggiunse: scrivi tu la cifra». Una testimonianza ricca di particolari, alcuni inediti, nonostante Sessa in questi anni più volte abbia ripercorso quanto accadeva all'Isochimica dove Ferrovie dello Stato inviava carrozze per farle scoibentare. Fino a quando un gruppo di operai, guidato dal riferimento di Rifondazione Comunista Giovanni Maraia, aveva cominciato una battaglia per chiedere delucidazioni sulle condizioni nelle quali erano costretti a lavorare, pretendendo chiarimenti sui pericoli legati all'inalazione di amianto.

«L'unico sistema di aspirazione in quel capannone erano i nostri polmoni e le porte aperte». Ha chiarito Sessa rispondendo alle domande del Procuratore, Rosario Cantelmo, affiancato dal sostituto, Roberto Patscot. L'operaio ha ripercorso anche le battaglie intraprese con la dirigenza Graziano che lo riteneva «il nemico pubblico numero uno».

«Una volta – ha raccontato il teste – mi hanno licenziato addirittura due volte in un giorno: la mattina e la sera. Io ero colpevole di aver chiesto di poter lavorare in sicurezza e in tranquillità».

La testimonianza di Sessa non ha risparmiato neppure Ferrovie dello Stato (oggi Rfi), che «Aveva un ufficio permanente all'Isochimica. I dipendenti di Ferrovie si occupavano di aprire e chiudere lo stabilimento prima della scoibentazione delle carrozze e alla fine».

Racconto confermato anche nella deposizione dell'altro operaio citato come testimone dalla Procura, Michele Aversa. Si occupava di pulire lo stabilimento.

«Al mio arrivo mi diedero tuta, scopa, paletta e secchio. Dove raccoglievo l'amianto che all'epoca non sapevo cosa fosse. Più volte ho visto cadere quel metallo dai vetri delle carrozze».

Aversa ha raccontato che nel primo periodo «l'amianto non veniva bagnato prima della lavorazione. Raccolto in sacchi era trasportato da alcuni camion altrove verso una destinazione a noi sconosciuta». Dopo le prime indagini della Procura fiorentina e l'ispezione degli esperti dell'università Cattolica, cominciarono a interrare il metallo nello spazio antistante la fabbrica.

«Erano gli operai della ditta che eseguiva lo scavo a occuparsene. Una delle buche si trovava a ridosso di un capannone. I fossi venivano lasciati "aperti" fino a quando non si riempivano di sacchi. E solo poi ci si occupava di coprirlo», ha chiarito Aversa che ha descritto con ricchezza di particolari l'assenza di misure di sicurezza in fabbrica. Non esisteva una figura che se ne occupava.

«Per ogni problema ci rivolgevamo all'ingegnere Pasquale De Luca e, se non lo risolvevamo, con Vincenzo Izzo (entrambi imputati)».

Dalla deposizione emerge che «solo in un secondo tempo cominciammo a utilizzare maschere di protezione» e «fra il capannone e i binari, dove avveniva la scoibentazione, c'erano solo delle porte: nessuna altra divisione o vano intermedio».

Inoltre gli operai in un'occasione erano stati anche inviati in uno stabilimento di Castellamare di Stabia.

«Ci siamo occupati di scoibentare l'amianto residuo su alcune carrozze», ha raccontato il testimone da tempo malato di asbestosi (malattia da inalazione di amianto).

Era assente per motivi di salute l'altro ex dipendente della fabbrica di Pianodardine, Gerardo Gioino, così è stato acquisito il verbale di dichiarazioni che aveva reso alla polizia giudiziaria in fase di indagine.

Infine sul banco dei testimoni è salito il consulente della Procura, l'ingegnere Antonello Volpe, che si è occupato di descrivere il ruolo svolto nell'indagine. Ha acquisito dall'Asl i certificati di patologie riscontrate da numerosi ex operai e comunicazioni spontanee dell'azienda sanitaria locale che descriveva la loro condizione fisica. Poi il Procuratore Patscot ha chiesto e ottenuto con il consenso delle difese e dei giudici di rinunciare a centosessantadue testimoni in lista ritenendo «ampiamente definite e documentate», da quanto emerso finora nel processo, le condizioni nelle quali gli ex operai lavoravano. Il collegio giudicante, presieduto dal magistrato Sonia Matarazzo a latere Pierpaolo Calabrese e Gennaro Lezzi, ha disposto la nuova udienza il 25 maggio.

La difesa degli imputati è affidata, fra gli altri, agli avvocati Antonio Falconieri, Claudio Frongillo, Generoso Pagliarulo, Carmen Picariello e Alberico Villani. La difesa delle parti civili è rappresentata, fra gli altri, dagli avvocati Ennio Napolillo e Angelo Polcaro.