Clément Duval e il perdono che non si regala ai potenti

Un uomo che è rimasto schiacciato in una lotta contro il potere e le sue storture

Clément Duval è una di quelle persone che rappresenta l’eterna lotta di chi vuole essere libero, non solo dalle catene, non solo come individuo; libero come parte di una società. Un uomo che nella sua vita ha lottato contro le ingiustizie, un uomo che è rimasto schiacciato in una lotta contro il potere e le sue storture.

Questo suo discorso è un grido di libertà fatto da un uomo che il potere provò a rinchiudere senza mai riuscirci. Clément Duval fu infatti deportato in Guyana e dopo decine di tentativi di evasione, nel 1901 riuscì a fuggire e riconquistò per sempre la sua libertà.

“Non sono un ladro né un assassino: sono semplicemente un ribelle. Non vi riconosco il diritto di interrogarmi, perché qui, sono io l’accusatore.
Accuso questa società matrigna e corrotta, in cui l’orgia, l’ozio e la rapina trionfano impuniti e anzi venerati, sulla miseria e sul dolore degli sfruttati. Voi cianciate di furti, voi mi chiamate ladro come se un lavoratore che ha dato alla società trent’anni della sua avvilente fatica per poi non avere neppure il pane per sfamarsi, un cencio per coprirsi, un canile in cui rifugiarsi, potesse mai essere un ladro. Voi sapete bene che mentite, voi sapete meglio di me che e’ furto lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, che se al mondo vi sono dei ladri, questi vanno cercati tra coloro che oziando gozzovigliano a spese dei miserabili, i quali producono tutto, con le proprie mani martoriate.
Voi stessi sareste capaci di condividere ciò che sto per dirvi: che scopo dell’essere umano è la libertà e il benessere. Ma la prima non può trionfare se non grazie alla rivolta contro chi devasta la civile convivenza perseguendo soltanto il proprio profitto, e il secondo si realizzerà soltanto con la violenta distruzione degli intollerabili privilegi di un’oligarchia razziatrice.
È per questo che sono anarchico. Perché ho il diritto di essere libero riconoscendo come limite alla mia libertà, la libertà altrui. E ho consacrato ogni mio pensiero, ogni mia parola e ogni mio sforzo, tutta la vita, a debellare i vostri insani principi di autorità e proprietà , aspirando a distruggere il vecchio ordine sociale, perché non ritengo assurdo né utopico che dalle nostre menti, dai nostri cuori e dalle nostre braccia possa scaturire un mondo migliore, dove libertà e benessere siano il frutto dell’eguaglianza e dell’armonia, in una società che bandisca lo sfruttamento e persegua le regole della solidarietà e della reciprocità, in nome del rispetto della vita umana che voi, difendendo i più sordidi interessi delle classi privilegiate, soffocate con leggi che insegnano e propagano il disprezzo e la sopraffazione.
Sareste cosi’ temerari da negare tutto ciò?
A smentirvi basterebbero le brutali statistiche delle quali cito qualche esempio: nelle fabbriche di vernici o di specchi, i lavoratori sono avvelenati dai sali di piombo e di mercurio, falciati a migliaia nel vigore degli anni, quando sappiamo che la scienza ha dimostrato che questi micidiali sistemi di produzione potrebbero, con poca spesa e minimo sacrificio, essere sostituiti da metodi e prodotti inoffensivi. Le fabbriche di giocattoli intossicano con eguale disinvoltura gli operai che li confezionano e i bambini a cui sono destinati, per non parlare delle miniere, bolge orrende dove migliaia di disgraziati, estranei al mondo, al sole, a un barlume di affetto, sono destinati all’abbrutimento per fare la fortuna di un ignobile pugno di parassiti. Tutto il vostro sistema di produzione e’ un insulto alla vita, e un crimine contro l’umanità.
E lo sfruttamento dell’uomo non e’ ancora il più feroce e cinico: che dire dello sfruttamento della donna, verso la quale la vostra società è addirittura più spietata?
Oh, io le ho viste, e tante, gagliarde, nel fiore della giovinezza, piene di salute, arrivare dalle campagne avare alla città piovra. Rideva nei loro occhi la speranza, con sana freschezza nutrivano la fiducia di giungere finalmente nella terra promessa del lavoro, della prosperità, del benessere. Le ho riviste qualche tempo dopo, uscire dai vostri ergastoli senz’aria e senza luce che chiamate fabbriche, lavorando dieci, dodici o quattordici ore per il pane, sognando un’agiatezza che l’onesta fatica non concederà mai, le ho riviste anemiche, stanche, esauste, nauseate da un lavoro schiavista e dal vostro cinismo. Le ho riviste a tarda notte nelle taverne dei sobborghi, sul lastricato, tra le pozzanghere, guadagnarsi il pane e un rifugio ricorrendo al più umiliante mercimonio. Le ho riviste nelle celle delle gendarmerie, schedate, bollate dal marchio dell’infamia, queste poverette che la vostra società ipocrita relega al margine. Le ho viste intristirsi, inasprirsi sotto la sferza della fatica e della miseria, non credere più nella vita, non credere più nell’avvenire, non credere più nell’amore, proprio loro che all’amore si erano concesse sorridendo e avevano salutato la nuova culla con lacrime di gioia. E sotto quell’accidia ho visto germinare le delusioni che si trasformano in disperazione, scatenando violenze e l’abbandono della famiglia, questo istituto a vostro dire sacro di cui vi autoproclamate sacerdoti, custodi e paladini.
E in cuor mio, non vi ho più perdonato.
Sono un operaio che non ha sopportato a capo chino, e prima, ero carne da cannone, tornato dalla bassa macelleria del 1870 straziato dalle ferite e spezzato dai reumatismi. Nei tristi androni dell’ospedale ho avuto tempo, molto tempo, per riflettere su quanto la patria aveva voluto da me e quanto la patria mi aveva dato. Prima mi avete annebbiato il cervello di menzogne, odio e furore selvaggio, per poi farmi avventare in nome dell’onore e della gloria della Francia, tra rulli di tamburi e squilli di fanfare, contro il nemico.
Il nemico? Li ho visti faccia a faccia, i nemici: erano poveracci come noi, che avanzavano verso la carneficina mesti, docili, inconsapevoli quanto noi di essere strumento di calcoli che di là come di qua dalla frontiera rinsaldavano i diritti feudali di vita e di morte sui sudditi.
Il nemico è qui. Dentro le frontiere segnate dal capriccio e dalla bramosia di profitto dei governi. L’umanità che soffre e lavora, quella è la nostra patria. Il nemico, è l’oligarchia ladra che si ingozza sul nostro sudore. Non ci ingannate più.
Voi ci avete spediti al di là del mare contro popoli che chiedevano soltanto di mantenere inviolato il proprio focolare. In nome della vostra civiltà ci avete incitato allo stupro, al saccheggio, alla strage, per sete di conquista. E dopo tanto orrore e ferocia, avete la sfrontatezza di giudicare i disgraziati che vedendosi negato il diritto a una dignitosa esistenza, hanno avuto almeno il coraggio di andarsi a prendere il necessario la’ dove abbonda il superfluo?
Ecco perché mi trovo qui: per aver gridato forte e chiaro ciò che Proudhon si è limitato a pronunciare a bassa voce davanti a un’accademia di benpensanti: che la proprietà, se non nasce dal lavoro, se non germoglia dal risparmio, dall’abnegazione, dall’onesto vivere, è un furto. Voi avete fatto della proprietà un’istituzione. Egoista e una pratica selvaggia a cui tributate venerazione, mentre i miserabili devono a essa i dolori, l’odio e le maledizioni.
Io non tendo la mano a chiedere l’elemosina. Io pretendo che mi sia riconosciuto il diritto a riprendermi ciò che mi è stato tolto da una congrega di accaparratori, ladri e corrotti.
Non mi ingannate più. E, in cuor mio, non vi perdono.”

a cura di Claudio Mazzone