Morto Stefano Benni, il cantore ironico degli anni ruggenti dell'Italia dei bar

Addio allo scrittore bolognese, morto a 78 anni.

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Dalla Luisona immortale al calcetto sudato, dalla briscola demolitrice al poker col pollo: l’opera di Benni ha raccontato l’Italia con un’ironia visionaria che ha reso epico il quotidiano.

In principio fu "fantasia, intuizione, colpo d'occhio e velocità d'esecuzione". E non state a disperarvi se non riuscitre a risalie la citazione: chi ci arriva è vecchio come il cucco e capirebbe al volo anche cos'è "il camion del gurgo". Poi venne lui, la Luisona e il professor Piscopo, filosofo specializzato nelle definizioni dei fondoschiena femminili incocciati stando seduto al tavolo centrale del Bar Sport: «Carnoso, equilibrato, ben composto: 6,5», con applauso di tutti gli astanti.

È l'Italia degli anni '70, di noi ragazzini ogni giorno sporchi di fango e sudore per le partitelle sotto casa che finivano 20 a 14 dopo ore di lotte, colpi di classe e furiose litigate per un fallo o un rigore. Anni magici, iniziati con Monicelli e l'insuperato "Amici miei" e poi continuati a sbellicarsi avendo per la prima volta tra le mani "Bar sport" scritto proprio da lui, Stefano Benni. Se n’è andato a 78 anni, e con lui se ne va uno dei narratori più amati e inafferrabili della letteratura italiana contemporanea. Autore di romanzi diventati cult come La compagnia dei Celestini o Margherita Dolcevita, resterà però per sempre legato a Bar Sport, il suo esordio del 1976, quel piccolo libro capace di racchiudere un mondo intero dietro un bancone, un caffè, una partita a carte.

Il bar di Benni non era un locale qualsiasi. Era il cuore della provincia italiana, con i suoi personaggi eterni, le loro fissazioni e le loro frasi fatte. Lì poteva succedere di tutto: persino che un innocente rappresentante di Milano osasse addentare la famigerata Luisona, la più antica delle paste in vetrina, sopravvissuta dal 1959. Il risultato? Un’odissea gastroenterica che divenne leggenda, perché la Luisona non perdonava. Benni aveva il dono di trasformare l’ordinario in epico, il ridicolo in poesia. Bastava guardare una partita di briscola per vederla diventare una battaglia campale: non più carte, ma pietre scagliate con forza sul tavolo, fino a distruggerlo. Oppure osservare un incontro al calcetto da bar, giocato in mutande per il caldo, che si trasformava in uno sport estremo, quasi una disciplina olimpica del surreale.

Nel suo mondo, persino il poker era occasione per coniare definizioni memorabili: “in quattro, oppure in tre col morto, o meglio ancora in tre col pollo”. Un lampo di umorismo che svela l’essenza della sua scrittura: giocare con la lingua per svelare la verità attraverso l’assurdo. Dietro le risate, però, c’era sempre uno sguardo affettuoso e disincantato sull’Italia. Nei suoi libri Benni ha saputo raccontare il costume, la politica, le contraddizioni del nostro Paese con lo stesso tono: ironico, tenero, spietato. Nel bar dei suoi racconti, i “tecnici” dell’Italia — allenatori da bancone, strateghi di briscola, filosofi da caffè — diventavano protagonisti assoluti. Un microcosmo che, nella sua apparente marginalità, era più rappresentativo di mille discorsi ufficiali.

Oggi, mentre lo salutiamo, resta l’immagine di uno scrittore capace di ridere e far ridere, ma soprattutto di consegnarci una chiave per leggere la realtà: basta entrare in un bar, osservare i clienti abituali, e capire che lì, nella provincia, nella ripetizione quotidiana, c’è l’Italia intera. Stefano Benni ci ha lasciato, ma il suo Bar continua ad aprire ogni mattina. Dietro il bancone, la Luisona sorride ancora.