Dieci anni fa, su una spiaggia di Bodrum, il mare restituì al mondo un’immagine che avrebbe dovuto cambiare tutto. Un bimbo, tre anni, giacché rosso, pantaloncini blu, scarpine ancora ai piedi. Alan Kurdi non dormiva. Alan era morto. E il mondo, quel giorno, giurò: mai più. Dieci anni dopo, quel “mai più” è diventato “sempre”. Sempre nuovi nomi, sempre nuove bare bianche, sempre madri che stringono al petto bambini che non respirano più. Sempre. Alan non sapeva nulla di frontiere, di confini, di leggi, di accordi con dittatori travestiti da partner strategici. Alan aveva solo paura, stretta tra le braccia di sua madre, su un gommone che prometteva salvezza e invece portava la morte.
Il padre, Abdullah, sopravvissuto all’inferno, raccontò allora l’alba del 2 settembre 2015: il mare che si gonfia, il silenzio rotto dalle urla, i corpi che scivolano via uno dopo l’altro, e il buio che ti tiene in vita quando vorresti solo affondare. «Quando li ho raggiunti, ho provato con tutte le forze a tenerli a galla, ero esausto, non respiravo, Rehanna era pesante e rigida come una statua di pietra. Mi sono scivolati dalle mani uno dopo l'altro».
Quella foto fece il giro del mondo. Finì sui muri delle città, nei cuori di chi non chiuse gli occhi, nelle lacrime di chi non seppe trovare parole. Si dissero parole grandi, promesse solenni, impegni gridati nei palazzi del potere. Ma le onde non ascoltano proclami, e il Mediterraneo ha continuato a inghiottire sogni. Negli ultimi dieci anni, 3.500 bambini come Alan hanno perso la vita o sono scomparsi nel viaggio verso l’Europa. Tre mila e cinquecento. Bambini che non avranno mai una scuola, mai un compleanno, mai il diritto di crescere. Bambini che oggi nessuno fotografa, che restano numeri in un bollettino silenzioso.
E mentre il mare si riempie di silenzi, i governi si riempiono la bocca di parole: sicurezza, flussi, respingimenti, emergenza. Ma il vero stato di emergenza è questo: l’indifferenza. È la capacità di voltarsi dall’altra parte, di non vedere quei corpi piccoli, di non ascoltare quel pianto che il vento porta a riva. Alan, con il suo volto nella sabbia, è diventato l’icona di una tragedia senza tempo. Ma non basta un’icona per cambiare la storia. Non basta un hashtag, non basta un’onda di commozione che dura lo spazio di un giorno.
Il Mediterraneo, oggi, è un cimitero liquido. E quei bambini, tutti quei bambini, chiedono che qualcuno abbia il coraggio di guardare. Non di piangere, ma di agire. Perché la maglietta rossa di Alan non è un simbolo da commemorare, ma un grido che ancora oggi ci chiede conto. Dieci anni dopo, la coscienza del mondo è ancora affondata nella sabbia.
