In morte di tutte le Giulia Cecchettin del mondo

Riflessione sull'ultimo femminicidio e sulla società patriarcale che molti non vedono...

in morte di tutte le giulia cecchettin del mondo
Napoli.  

Una storia tristemente ordinaria, come quella dell'ennesimo femminicidio, che rendiconta ormai in Italia un decesso ogni tre giorni e mezzo, è diventata, in queste ultime ore, a tratti straordinaria, anche se avremmo tutti preferito farne a meno.

La tragicità di un'altra morte - quella di una ragazza 22enne veneta, Giulia Cecchettin, dal viso anche fin troppo innocente e bello - ha infatti trasformato una narrazione di giovani pene d'amore e altre (pare) loro comuni distorsioni - oscure a chi come me si indaffara in "questioni da adulto" - in una cantilena funebre ridondante e adirata, a tratti morbosa e irraccontabile, ma forse mai così deflagrante come questa volta in ogni ambito della vita pubblica di questo paese. Un altro fuoco fatuo? Spero proprio di no.

Confesso di essere stato tentato di lasciare il mio pezzo, di tre colonne o giù di lì, in bianco, non scritto, vuoto, una bocca tappata, un pugno chiuso, una ferita a marcire. Come quella inferta da un coltello - rovinoso e scheggiato - brandito da un Filippo Turetta a caso, non esattamente alla cieca, e con una volontà non esattamente cieca. Ma per un maschio dalla incerta collocazione tra le parti come me sarebbe stata l'assoluzione da ogni responsabilità, la penitenza per ogni peccato puntualmente e già ignominiosamente commesso.

Allora scrivo (oh sì se scrivo) dopo aver letto molto, forse anche troppo. Il web, la politica, i media, le sussurrate o vocianti piazze hanno traboccato senza sosta di commenti, cronache e verdetti. Ci credereste? È perfino già accaduto che il giudicato sia diventato giudice e il boia vittima, in un valzer di dibattiti, analisi e accuse. Un consigliere regionale del Veneto - la regione d'Italia in cui si sono verificati negli ultimi mesi i più clamorosi episodi di "insubordinazione scolastica" - ha confutato con tronfia sicumera a Elena, la sorella maggiore di Giulia, la parola "patriarcato", quel "tipo di sistema sociale in cui vige il 'diritto paterno', ossia il controllo esclusivo dell'autorità domestica, pubblica e politica da parte dei maschi più anziani". La battagliera sorella della dolce Giulia, dell'esanime Giulia, della dissanguata Giulia - quella che doveva laurearsi tre giorni dopo, quella che ci aveva ripensato e aveva visto con occhi nuovi chi aveva erroneamente amato, quella che si era perfino pagata l'ultima cena con lui - ha scelto parole inusuali per chi è piegata in due dal dolore, ha trasformato il silenzio, in cui molti avrebbero voluto relegarla, in dissenso e maledizioni. Tra queste ultime annovero la parola "patriarcato", "il grande j'accuse di una figlia al padre e alla sua soffocante cultura".

Nessuno se ne rammarichi, né politici né uomini comuni. Già nel 1993 Jane Caputi, professoressa della Florida Atlantic University, esperta di studi di genere, descriveva i femminicidi come una “forma di terrorismo patriarcale”.

Ma Elena - mi consenta quel virgulto di coraggio e orgoglio - ha torto. Il ragazzo insicuro e malato - non un "mostro", qui ha ragione lei - che ha tolto la vita a sua sorella in un modo così brutale e ottuso, non è figlio di una società patriarcale, non ne ha né i codici affettivi né quelli morali, la scimmiotta solamente. Come la maggior parte dei suoi coetanei. Tutti nati da una replicazione stantia di cliché maschilisti e cresciuti all'ombra di madri patologiche e protettive e di padri che hanno da tempo declinato ogni responsabilità etica da mostrare e tramandare 

Questa moltitudine di giovani (e meno giovani) si è così trovata in mezzo a un guado, vuota di certezze e sentimenti, con la sola cosa che le "riusciva bene", perpetuare il principio (perduto) di predominanza sulla donna con la forza, la violenza e la morte, miseri strumenti di sconfitta e abdicazione morale ineluttabile.

Non risolveremo - va detto - una questione ormai così annosa, incancrenita e complessa con la tanto declamata "educazione sentimentale" a scuola, ancor di più se con lo psicologo arriverà in classe (ahinoi!) - come si vocifera - anche l'influencer. Né la risolveremo con i pur meritevoli messaggi pubblicitari in televisione, sui giornali, nei social, per strada o nei baci Perugina. Non è lì che si annida il male e non è lì che quel male sarà sconfitto. L'analfabetismo sentimentale è già profondamente radicato nei cuori di tutti, nessuno escluso.

Certo la scuola deve fare la sua parte, ma prima di educare, prima di edulcorare, sarebbe già un grande risultato se ricominciasse a insegnare. Sì proprio insegnare, il latino, il greco, la letteratura, la fisica, la chimica, la religione, la storia, la matematica e la filosofia. E soprattutto non demandando a una terza entità pervasiva e amorale, come quella dei social, con i loro vuoti legami, la magica soluzione per tutti i pezzi mancanti. È la cultura tout court che può migliorare i nostri ragazzi, costruendo solide basi interiori prima di ogni altra coniugazione formativa. Alberto Camus diceva che "il male nel mondo viene quasi sempre dall'ignoranza".

Così una volta tanto devo dar ragione a Vittorio Sgarbi, secondo cui, molto prima di dedicare i nostri figli alla "educazione sentimentale e sessuale" - ora anche Federica Pellegrini la invoca - facciamo leggere Manzoni o Neruda, vedere (e capire) Il Masaccio o Rembrandt, ascoltare Mozart o Liszt.

Con quel surrogato di famiglia che ci resta, non sottraiamo alla scuola piu alcun compito e facciamola diventare fucina di sapere e uguaglianza, "un contenitore meraviglioso di crescita" come l'ha definita Paolo Crepet. E sia lo stesso per le università e i corsi di formazione professionale. Il "diritto divino" del dominio dell'uomo sulla donna si nasconde in ogni dove e lì deve essere vinto, con il sapere e il confronto che da esso deriva. E basta con le ipocrite quote rosa in politica senza una vera parità nel mondo del lavoro.

Solo se gli uomini impareranno a rinunciare nei fatti alla loro ingiustificata "egemonia sociale" - e lo insegneranno ai loro figli - saranno poi in grado di piantarla con l'assurda pretesa di controllo e dominio della donna anche tra le mura domestiche o in ogni altro anfratto di intimità. E chissà che non riescano così (perfino) a godere dell'amicizia che viene dopo l'amore e della comprensione che sopraggiunge alla passione. Perché, a guardar bene, è questa la grande rivoluzione che attendono tutte le Giulia Cecchettin del mondo, più copernicana di quelle tante "patriarcali" - qui ci sta bene - di secoli e secoli di storia: parlare ai cuori più che alle menti, mutare i percorsi quanto le mete (non privilegiando sempre le ragioni della "politica" e della finanza), far fiorire prati dove ancora si ammassano munizioni, abbattere steccati e fili spinati, gettare alle ortiche un burqa (e la sua "cultura") per un libro di Emily Dickinson o una poesia, quella poesia, di Cristina Torres Cáceres.