L’armata Brancaleone alla Crociata di Piazza del Popolo

Analisi di una crisi con scenari che lasciano sconcertati

l armata brancaleone alla crociata di piazza del popolo

Avellino oggi è sede d’istituzioni bivacco per abili manovratori e affaristi, incalliti trasformisti, menestrelli di giornata, bravi manzoniani, di varia taglia e misura, capeggiati da insulsi Griso di turno...

Avellino.  

Questa volta Vittorio Gassman, l’impareggiabile Brancaleone da Norcia, protagonista dei due capolavori filmografici di Mario Monicelli del 1966 e del 1970, non c’è. Non ci sono nemmeno i suoi soldati di ventura, una brigata di simpatici, scalcinati guerrieri interpretati da attori notevolissimi.

La conquista di un feudo pugliese oppure del Santo Sepolcro, da liberare in siffatta occasione dagli infedeli o dal feroce Saladino in contumacia, in un goliardico quanto temerario gioco al rovescio, non è la lontana Gerusalemme bensì la sempre più piccola e decaduta Avellino, - nel Seicento splendente feudo dei principi Caracciolo, nell’Ottocento ‘capitale’ borghese degli ideali risorgimentali, nel Novecento rivoluzionario laboratorio del pensiero meridionalistico -, oggi sede d’istituzioni bivacco per abili manovratori e affaristi, incalliti trasformisti, menestrelli di giornata, bravi manzoniani, di varia taglia e misura, capeggiati da insulsi Griso di turno. 

In uno scenario policromo, con inserti circensi abbastanza accentuati, si sta tentando un’operazione bizzarra, con risvolti psicanalitici interessanti ossia liberare se da sé stessi ossia uscire dalla clessidra del tempo annullando il proprio ingombrante passato, rendendo il presente vivido e lucente.

In sostanza è in atto il tentativo di una prosaica operazione di potere qualunquistico, caratterizzata da una primitiva indisponibilità alla razionalità, a quella “bonne foi”, la buona fede a cui Michel de Montaigne faceva risalire le fonti primarie della moralità pubblica. No. Cadiamo più in basso nella diffusa vulgata. Il vero, unico obiettivo è la conservazione di un’amministrazione assai modesta, priva del consenso necessario per definirsi democratica avendo spudoratamente rotto il cartello elettorale che un anno fa ne aveva sancito la vittoria, rinchiusa puerilmente in quella salmastra costruzione post-terremoto di Piazza del Popolo che ritenevamo comunque la libera casa di ogni cittadino avellinese e non una plumbea cooperativa di signore e signori dediti ad imbalsamare sé stessi contro ogni logica.

Intanto città e provincia sono assediate dalla camorra e comuni non marginali sciolti per infiltrazioni mafiose tra il 2020 e il 2024 quali Pratola Serra, Monteforte Irpino e Quindici.

In un paesaggio pervaso da un’illegalità diffusa, si cerca nel capoluogo di far sopravvivere un’amministrazione debolissima, accerchiata da valanghe d’inchieste ed indagini, priva del reale consenso democratico, con l’obiettivo a dir poco vergognoso di gestire e investire milioni di euro in opere pubbliche.

Ma veniamo ad una questione meramente politica. In queste ore il PD è l’unica forza partitica in città a rischiare, e tanto, sul terreno del medio e del lungo periodo. La destra in fondo fa il suo gioco ed attende con ansia, almeno la parte forzista, tra l’altro imbottita di modesti rincalzi di quella che fu la composita famiglia manciniana, di poter realizzare una santa alleanza con quel resto di niente del centrosinistra.

Il confronto elettorale del maggio-giugno dello scorso anno ha dimostrato la inconciliabilità delle forze in campo tanto che il candidato a sindaco del PD, area Schlein, ha improntato la sua campagna tutta sulla questione morale e sulla necessità di liberare la città dal malgoverno degli anni precedenti.

Nell’esame del voto, mi auguro qualcuno dei nuovi crociati lo abbia pur fatto, le 4 liste che sostenevano il piddino riportarono complessivamente al primo turno 14.543 voti mentre il candidato alla poltrona di primo cittadino ne ottenne 11.366: ne mancavano all’appello 3.177. Solo un indizio, certo, non privo però di screziature che si palesarono al secondo turno quando l’aspirante sindaco di sinistra incrementò di solo 246 preferenze il suo bottino elettorale: alla fine ottenne 11.612 voti.

Appare evidente che la candidatura, peraltro contrastata nelle fasi preliminari e risolta sul lungomare di Salerno con un accordo stabile quanto le onde di una mareggiata, non abbia convinto del tutto proprio il partito che lo designava.

Motivi e questioni tutte riconducibili ad un fascio di ragioni assai in relazioni tra loro: alla gestione dei servizi pubblici (rifiuti, acqua, area industriale, edilizia pubblica ecc. ecc.) e dei suoi organi di controllo, alle candidature per le elezioni regionali - (in quel momento De Luca credeva ancora di poter concorrere al terzo mandato) -, al destino della presidenza dell’amministrazione provinciale, fonte di un potere gestionale, non più espressione, a dispetto delle intenzioni della riforma Del Rio, della volontà degli antichi collegi territoriali bensì delle quote di rappresentanza nei consigli comunali.

Sull’altro fronte, quello ad uso ed immagine dell’ombra di Banquo, in quel momento ristretto nel suo maniero condominiale dal lavoro della magistratura, le tre liste di supporto alla Vice per definizione ottennero 11.265 voti contro le sue 9975 preferenze.

Prova esemplare che entrambi i candidati non avevano del tutto convinto buona parte dei cittadini avellinesi. L’exploit elettorale al secondo turno del succedaneo festiano, al punto da ottenere 12.501 voti con un incremento in due settimane di 2.526 preferenze benché l’affluenza tra primo e secondo turno fosse passata da oltre il 69% allo scarso 53% del 9 giugno, è la implicita dimostrazione di un’operazione politica e non solo, rivolta a orientare le scelte della nascente amministrazione e a iniziare un’opera di liberazione - si fa per dire -, dell’innocenza arcadica dalle fauci del drago, ridotto, secondo una rituale pratica ebraica, a funzionale capro espiatorio.

Detto ciò il tema della “liberazione appare accettato dai correi e la rinnovata armata Brancaleone, senza Gassman ahimè, vuole verniciare l’obbrobrio intenzionale in un atto salvifico.

Occorre che parte del PD, come più volte temuto, in cambio di trenta denari – presidenze, assessorati e qualche residuo indifferenziato - compia la sua profana transustanziazione convertendo il sangue e il corpo della sua Storia e dei suoi autentici ideali sociali e cristiani, riassunti nella sofferta fusione dei valori del DS con quelli della Margherita, in letame politico.

Ed inoltre, realizzato il miracolo eucaristico resta l’obiettivo di qualche statista in sedicesimo di stampo goldoniano, già servo di due o più padroni, ansioso di entrare o rientrare ad ottobre nel Consiglio regionale della Campania: già vedovo, allegro e giulivo, del trapassato De Luca.

La crescente violenza espressiva di qualche ventriloquo indottrinato intanto cela, ma non tanto, la difficoltà degli attuali dirigenti, mai eletti da un congresso, bene sottolinearlo, a trascinare l’intero PD in una scelta avventuristica al solo scopo di favorire carriere e redditi a danno delle idealità e dei programmi dell’intera comunità politica che si pretende di rappresentare, probabilmente con pacchetti di tessere acquistate con modalità inquietanti.

Un’ultima considerazione. I 7 assessori designati dall’ex sindaco ed imposti alla sua Vice, - non eletta dalla maggioranza degli avellinesi, ripetiamolo, ma da una minoranza della città -, solo due mesi fa, lasciarono la carica di consigliere comunale per ricoprire il nuovo incarico, come impone la legge per i comuni con più di 15.000 abitanti. Ebbene. Si tenga a mente che complessivamente costoro avevano raccolto 3.875 preferenze, quasi 600 in più dell’intera lista che sosteneva l’attuale sindaco. La vice sindaca di un solo mattino, dimessasi per solidarietà con i revocati, aveva ottenuto 721 preferenze, risultando la più votata nel consiglio comunale.

I componenti della caduca, fulminante giunta della tarda primavera oggi sono esclusi dalla pubblica amministrazione con un atto di revoca che in base alla giurisprudenza consolidata non è politica ma deve essere di alta amministrazione e necessita di adeguata motivazione; non è giustificabile come puro atto di reazione personale se si vuole con onestà recuperare le forme più intelligenti del dialogo.

Perché in una fase di grande friabilità politica si è voluto andare a ricoprire la carica di presidente del Piano di Zona e non affidare il ruolo ad un personale di riconosciute competenze vista la delicatezza dei compiti da svolgere? Per quali importanti ragioni umanitarie insistere nel perseguire un obiettivo palesemente detonatore di ulteriori conflitti?

Tra l’altro i 7 sono stati sostituiti in consiglio da non eletti che, in gran parte, sono andati a rafforzare, ovviamente, le ultime possibilità di sopravvivenza di un ristretto gruppo di persone a danno di una comunità di 51.000 abitanti.

Credo di ricordare, e lo riprendo per esclusive ragioni storiche affidandomi per una eventuale conferma o smentita alla memoria giornalistica di qualche veterano o testimone del tempo, che l’istituto della revoca fu praticato dal sindaco Di Nunno, aggredito quotidianamente da un sistema crepuscolare ma ancora forte e coeso, per revocare uno o più assessori non per ragioni politiche ma amministrative.

Far proseguire la fase amministrativa vuol dire quindi alimentare un clima infame di polemiche prolisse e rompere definitivamente il già fievole patto tra politica e società reale. Il tutto per salvaguardare Chi? Cosa? Quali affari? Quali Carriere?

In questa devastante recita dobbiamo riaffidarci a Brancalone da Norcia e al suo destriero Aquilante oppure uscire dal set di una brutta e non divertente commedia all’italiana e far diventare Avellino, finalmente, una città adeguata alle incalzanti sfide della post-modernità del ventunesimo secolo?

La stampa, i giovani che partono e quelli che restano, l’opinione pubblica, chi vive per la politica e non di politica, hanno il dovere di partecipare attivamente alla qualità del nostro Tempo, ripetendoci con Jorge Luis Borges “che il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco”.

L'autore è professore ordinario di Letteratura Italiana dell'Università di Cassino e del Lazio Meridionale