Sì, uno ha ragione a pretendere che la Protezione civile non sia un esercizio di modulistica ma una cultura diffusa, una responsabilità collettiva, un’educazione civica applicata ogni giorno. Le immagini che mostriamo — cartelli abbandonati, aree inaccessibili, parcheggi improvvisati diventati “punti di ammassamento” — raccontano una verità che nessun documento protocollato potrà coprire: ad Avellino la prevenzione è rimasta sulla carta.
In una città che conosce il dolore del terremoto, vedere il Piano di emergenza ridotto a segnaletica scolorita e QR code incomprensibili è una ferita civile. La Protezione civile, quella vera, non è un file PDF messo online, ma un insieme di persone, procedure, esercitazioni, fiducia. E di fiducia, oggi, ne resta poca.
Basta una scossa di magnitudo quattro per mandare nel panico una comunità intera e far chiudere le scuole. Ma le scuole dovrebbero essere — per legge, per dovere, per memoria — i luoghi più sicuri che abbiamo. Lo stesso vale per le caserme, per gli edifici pubblici che dovrebbero restare aperti quando tutto il resto crolla. Se non sono sicuri quelli, cosa abbiamo fatto in quarant’anni?
È facile dichiarare piani, fare delibere, firmare protocolli, organizzare convegni sulla resilienza. Difficile, invece, è controllare ogni anno lo stato delle vie di fuga, la manutenzione delle aree di raccolta, la formazione dei volontari, la comunicazione con i cittadini. Difficile è spiegare a una città che la prevenzione non è un evento, è un dovere quotidiano.
Eppure Avellino, più di ogni altra, dovrebbe sapere cosa significa. L’ha imparato nell’inverno del 1980, quando il rumore delle case che crollavano si mescolava a quello delle campane, e la parola “aiuto” arrivava troppo tardi. Oggi non abbiamo più l’alibi dell’impreparazione: abbiamo conoscenza, tecnologia, risorse. Ma non abbiamo la volontà di usarle.
La verità è che abbiamo fallito l’ABC della sicurezza. E nel fallimento collettivo si legge l’arroganza di una politica che confonde la gestione con la propaganda, la trasparenza con la pubblicazione di un link, la protezione con la burocrazia. È la stessa politica che chiude le scuole invece di metterle in sicurezza, che inaugura aree “di emergenza” in disuso, che promette piani ma non addestra nessuno a seguirli.
Avellino non è Napoli. Non ha milioni di persone da evacuare, non ha quartieri sterminati da gestire. Ha una scala umana, e proprio per questo la mancanza di un piano vero è più grave, più imperdonabile. In una città di medie dimensioni, la Protezione civile potrebbe essere un modello: esercitazioni pubbliche, volontari formati, punti di raccolta curati e riconoscibili, scuole aperte come centri di riferimento. Invece, non abbiamo nemmeno la certezza di dove andare in caso di emergenza.
Ci siamo consegnati alla paura perché ci siamo dimenticati di prepararci. Non è fatalismo: è abbandono. Ed è questo il fallimento più amaro della politica, che non ha saputo guardare avanti per garantire il futuro delle nuove generazioni.
Serve rabbia, sì. Ma una rabbia giusta, lucida, civile. Quella che nasce non dal panico, ma dalla memoria. Quella che ricorda che la prevenzione non si scrive: si fa. Ogni giorno, sul campo.
