Arturo Aiello Vescovo di Avellino
E’ possibile fermarci un attimo nella folle corsa che sembra prendere tutti in queste ultime ore? Il traffico è intasato e nei supermercati le donne corrono e sgomitano per accaparrarsi l’ultima porzione di baccalà per il cenone.
Per chi guardi dall’esterno il via vai e il nervosismo imperante appare chiaro che non ci si prepara al Natale, ma ad una guerra che sta per scoppiare e che richiede che si accumulino viveri per rifugi antiatomici dove essere relegati per mesi. Più che un mondo che comincia si respira la sensazione di un mondo che sta per finire e che richiede mascherina e tuta mimetica a portata di mano.
Se ci fermiamo un attimo scopriamo che il Natale del Signore è fonte di gioia e richiede il minimo indispensabile: avremmo bisogno di guardarci negli occhi e non di ingozzarci, di fare riferimento ai sogni e non al Pil, all’accoglienza e non alla guerra, ai racconti più che ai doni, al silenzio più che all’inquinamento acustico che ci toglie il sonno. Di una cosa non possiamo fare a meno: dei bambini. So che sono una merce rara in una società dalla speranza corta, ma a chi, genitore o nonno, ne abbia uno a portata di sguardo la magia del Natale è immediatamente fruibile. Natale è tutto negli occhi dei bambini che in questi giorni si fanno grandi di stupore e seguono nel presepe il cammino dei Magi, l’accorrere dei pastori, la gioia mite di Giuseppe e Maria che guardano la greppia pensando “E’ accaduto tutto come hai voluto Tu!”.
I bambini a Natale sono contagiosi, ci prestano i loro sguardi come occhiali magici e risvegliano, anche in noi adulti il bambino che eravamo (il “fanciullino”?) e che da qualche parte sbuca come biricchino sopravvissuto ai mille deserti e alle tante violenze della vita.
Se ci sono bambini possiamo avviarci al Presepe e sedere con loro sotto l’albero ricco di luci che ammiccano e doni tutti da scartocciare. Essi ancora credono al Bambino Gesù e parlano con Lui e giocano a nascondino mettendo alla prova la pazienza di Maria e Giuseppe. Hanno imparato poesie che, senza incespicare, parlano di angeli in coro, di notti di neve, di slitte e di renne, di pace…: una parola che solo essi sanno ancora pronunciare tirandola fuori da un vocabolario polveroso e dimenticato. Se li sappiamo ascoltare i bambini invocano la pace tra la mamma e il papà che a volte sentono gridare dalla stanza da letto tappandosi inutilmente le orecchie, nelle loro preghierine la vedono possibile, dietro l’angolo per il mondo, per i loro coetanei ucraini e russi, per i fanciulli palestinesi costretti a scappare in esilio come il Bambino Gesù in groppa all’asinello che aveva fatto da termosifone nella grotta insieme al bue.
Noi le guerre le dimenticheremo nei nostri cenoni e nelle riunioni di famiglia, non faremo caso ai tanti poveri esclusi dal luccichio come la piccola fiammiferaia della fiaba, ci abbracceremo esultanti nelle nostre case riscaldate senza pensare ai denti che battono in Ucraina in un ennesimo Natale “al freddo e al gelo” illuminato solo dai droni, i bambini no, hanno il cuore aperto, nelle loro letterine fanno capolino i loro amici meno fortunati e gli animali ancora parlano e mettono gli stivali.
Dai Natali dell’infanzia dipende il futuro del mondo, dagli occhi grandi dei bambini, laghi di stupore, si fanno pronostici per gli uomini che saranno un giorno, si allestiscono foreste o deserti, montagne o crateri, cieli o pozzanghere di sangue. “I bambini di Gaza -scrive Franco Arminio- hanno occhi/ colorati di bombe:/ Non sappiamo che dolore/ avranno a quarant’anni,/ che spine si apriranno in un abbraccio” (..) Noi guardiamo i bambini di Gaza/ da turisti dell’orrore.
Non pensiamo mai/ a cosa saranno in un tempo lontano…”. L’adulto è figlio del bambino, il grande debitore al piccolo: da questo Natale dipende il futuro di tanti, partono mille proiezioni, si preparano carezze o piaghe, nenie per addormentarsi sereni o urla che verranno a travagliare le notti dei prossimi decenni. Sono riconoscente ai miei genitori che, in tempi e situazioni di povertà, quand’ero bambino, mi hanno disegnato, con poche cose, scenari meravigliosi che fanno ancora da orizzonte ai miei incerti passi da vecchio.
Fa memoria anche tu dei registi dei mille natali dell’infanzia che oggi illuminano le tue notti e quelle del mondo e industriati per trovare parole per i bambini di oggi, per raccontare di una notte di duemila anni fa quando Giuseppe e Maria cercavano casa a Betlemme e non c’era posto per loro, come cercarono inutilmente un tetto per Gesù che aveva fretta di nascere e finirono con l’accamparsi in una stalla fuori paese. E nacque un bambino che era il Bambino: Dio sulla terra con miriadi di angeli che cantavano e portavano Pace.
Tu non ci credi più, ma i bambini si faranno attenti e diranno impazienti “E poi?” Dovrai dire di Erode e di Pilato, dei grandi del mondo che non riuscirono a uccidere la Speranza. Sentirai che il racconto si farà avvincente e prenderà anche te che hai cominciato a raccontare svogliato e anche in te nascerà la domanda: “E poi?”. Natale non è un quadro, ma l’inizio di una Storia che ancora continua. Se torna questa domanda c’è futuro anche per te, per me, per noi, anche per i bambini di Gaza. Buon Natale!
