Rotondi è come quei trapezisti che attraversano la politica oscillando tra un fatto e l'altro senza mai perdere equilibrio e sorriso. In questa intervista, il deputato irpino mostra tutto il suo talento, evitando accuratamente di precipitare nella rete delle domande più insidiose.
Lei da democristiano è approdato in Fratelli d’Italia, un partito con radici molto diverse dalle sue. Che cosa le piace tanto in Giorgia Meloni, al punto di sentirsi a suo agio sotto un simbolo così distante dalla sua storia?
"Io non sono iscritto a ‘Fratelli d’Italia’, ma per la semplice circostanza che presiedo un altro partito, la Democrazia Cristiana, che nel 2008 diede vita, assieme a FI e AN, quindi anche assieme a Giorgia Meloni, al ‘Popolo delle Libertà’, che voleva essere il partito unitario del centrodestra. La lite tra Fini e Berlusconi provocò l’implosione di quel progetto, e ciascuno riprese le insegne del passato: FI, la Dc, gli ex AN con Giorgia Meloni intrapresero un percorso più inclusivo, integrando personalità come Crosetto, Fitto, Mantovani, tutti forzisti di estrazione democristiana. È uno dei segreti del successo di FdI: offrono la fiamma ai nostalgici, ma sono diventati ciò che a Berlusconi non riuscì, ossia il partito di sintesi del centrodestra. La Dc ha stabilito un rapporto di coordinamento con FdI e per ora va bene così".
Spesso ha dichiarato che il centrodestra non ha saputo incarnare il ruolo della Democrazia Cristiana come "partito della nazione". Ritiene che Fratelli d’Italia, con i suoi continui richiami identitari, abbia le caratteristiche adatte a rappresentare davvero tutta la nazione?
"Il percorso di FdI nasce appunto dal Pdl, non da AN e dal MSI. Per certi aspetti questo passato riaffiora oggi in quella che io chiamo la ‘mistica della destra’, ossia la soddisfazione degli antichi militanti per una traversata straordinaria, e questo può indurre nell’idea che FdI si esaurisca nella terza fase del MSI, invece è altro e di più, per fortuna dell’Italia".
Lei, deputato di Fratelli d’Italia, alle comunali di Avellino ha apertamente sostenuto una lista moderata avversa al candidato ufficiale di FdI, Modestino Iandoli. Come concilia la fedeltà al partito nazionale con la libertà di contrastarne le scelte sul territorio?
"Non ho obblighi di fedeltà al partito nazionale perché appartengo a un altro partito, del quale sono presidente. Ciò premesso, è stato un errore dividersi alle elezioni comunali perché indifferentemente uno tra Modestino Iandoli e Pellegrino Genovese sarebbe andato al ballottaggio assicurando alla città momenti migliori".
Lei lamenta spesso che la Dc è assente o marginale nel centrodestra, attribuendo proprio a questa assenza eventuali sconfitte future. Ma contemporaneamente dice che è ormai inutile evocare il “Centro”. Come si può rafforzare una presenza democristiana nel centrodestra se non c'è più spazio per il centro?
"Ma la Dc non era il Centro. La Dc rappresentava il blocco conservatore, l’elettorato che si opponeva al PCI. Era una sorta di centrodestra più furbo, che conteneva anche un pezzo della parte opposta nella forma della sinistra democristiana. Rifare la Dc per me non significa potenziare un partitino ma un movimento e una cultura capaci di informare l’intero centrodestra. Non c’è bisogno di Centro bensì di popolarismo, solidarismo, sussidiarietà. E di un modello di partecipazione popolare più democratico attraverso partiti più collegiali".
In passato ha dichiarato che i vecchi dirigenti democristiani sono un ostacolo per una vera rinascita democristiana. Lei stesso però rappresenta da decenni quella classe dirigente. Perché proprio lei dovrebbe fare eccezione?
"Infatti mi includo, e dico che è tempo di nuovi carismi. Noi possiamo essere più preziosi in seconda fila, basti pensare proprio all’esempio dato da La Russa e dai vecchi dirigenti della Destra: hanno mandato avanti Giorgia e hanno vinto la partita. Anche la Dc può fare così ed è la strada che si può tracciare, purché se ne abbia la generosità".
In vista delle prossime elezioni regionali in Campania, lei sta cercando spazio politico. Più nel dettaglio. Forza Italia ha detto di volere chiudere con chi ha sfiduciato Nargi. È disposto stavolta a sostenere le scelte di Fratelli d’Italia, anche se significasse abbandonare le alleanze con i moderati che lei stesso ha creato?
"Da deputato del collegio ho dovuto svolgere una funzione di sostituzione di partiti pressoché inesistenti. Oggi il centrodestra vanta partiti strutturati con dirigenze visibili e autorevoli, e a loro compete la proposta e la difesa di una indicazione unitaria, doverosa verso la città. Io sono già allineato su quella rotta".
Lei è politicamente affascinante: riesce a essere contemporaneamente dentro e fuori, con e senza Fratelli d’Italia. Qual è il segreto della sua eterna capacità di restare al potere senza mai compromettersi davvero?
"Non posso negare una certa longevità politica, essendo con Bruno Tabacci il decano del Parlamento. Non c’è un segreto, conosco le regole della grammatica politica e le applico, la prima è che bisogna guardare sempre avanti".
"Quando dice che servono “nuovi carismi”, significa che sarà disposto a lasciare spazio ai più giovani o, come nella Dc di una volta, alla fine la generosità degli anziani prevede sempre una poltrona in prima fila?
"Sono alla guida della Dc da troppo tempo, ma per il semplice fatto che essa incorpora il mio nome, si chiama ´Dc con Rotondi’ per distinguerla dai molti tentativi di usurpare il nome, qualcuno perpetrato persino con eccentriche cause intentate proprio ad Avellino. Nel tempo ho promosso molti candidati nuovi , talvolta con soddisfazione, tal altra con un successivo pentimento. Ma continuerò a promuovere nuovi carismi, anche nelle prossime elezioni politiche".
Alla fine, come spesso accade con Rotondi, resta l'impressione che sia riuscito a dire tutto e il suo contrario senza mai inciampare davvero. L'intervista si chiude proprio nel momento in cui Avellino, il capoluogo irpino che il senatore conosce bene, è commissariato e nel pieno della guerra delle candidature per le Regionali. Forse l'abilità di Rotondi consiste proprio in questo: restare saldamente sospeso tra passato e futuro, aspettando che siano gli altri a decidere da che parte cadrà la politica locale.
