Rotondi, Martinazzoli e il pantheon che spiega l'attualità fatta di nani

Il racconto del “funerale della Balena Bianca” diventa l’ennesimo esercizio di nostalgia

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Nel ricordo del segretario che sciolse la Democrazia Cristiana, il deputato campano dimentica la lezione più importante di quella stagione

Avellino.  

Nel quattordicesimo anniversario della morte di Mino Martinazzoli, Gianfranco Rotondi ha affidato ai social e ai circuiti mediatici il suo personale ricordo dell’ultimo segretario della Democrazia Cristiana. È un testo elegante, in apparenza persino rispettoso, ma che tradisce qualche inciampo di analisi e, soprattutto, una rilettura piegata alle esigenze di un presente politico fragile, bisognoso di legittimazioni storiche. Non è solo questione di nostalgia. È questione di metodo: la storia viene piegata per assolvere il presente, senza la profondità critica che figure come Martinazzoli, Zaccagnini, Forlani — e, prima ancora, Fiorentino Sullo — hanno consegnato alla storia politica italiana.

La chiave nascosta: il revisionismo su Tangentopoli

Il passaggio più rivelatore del ragionamento di Rotondi è quello in cui, con apparente leggerezza, afferma che Martinazzoli dovette muoversi “sotto i colpi di un’inchiesta di tangentopoli il cui impianto eversivo oggi è chiaro anche agli storici più anti-democristiani”. È qui che il discorso diventa meno commemorativo e più politico. Perché quella frase, pronunciata oggi, non è neutra. È la stessa chiave narrativa utilizzata dal governo Meloni e dai suoi alleati per delegittimare “una certa magistratura”, accusata di avere colpito in modo selettivo un sistema politico, aprendo così la strada alla Seconda Repubblica e al predominio del berlusconismo. Una lettura suggestiva, ma non storicamente neutrale. Che Tangentopoli abbia avuto dinamiche complesse, che il giustizialismo mediatico abbia travolto garanzie e diritti, è un dato ormai condiviso da molti storici. Ma trasformare quella complessità in un alibi per assolvere in blocco la politica di allora e quella di oggi significa ignorare il contesto, le responsabilità e — soprattutto — il deficit culturale con cui la Dc affrontò il cambio d’epoca.

I fantasmi di un Pantheon selettivo

Rotondi costruisce un Pantheon personale in cui, accanto a Martinazzoli, campeggiano Zaccagnini, Forlani e, seppure in filigrana, il riformismo irrisolto di Fiorentino Sullo. È un’operazione intellettuale che tradisce un paradosso: cercare radici alte in un passato ormai cristallizzato, proprio mentre il presente politico che Rotondi abita appare popolato da figure minori, incapaci di visione, più simili a nani che a giganti. Il richiamo ai grandi della Dc, in questo senso, diventa quasi un’autoassoluzione: un rifugiarsi in una stagione di leadership alta per non misurarsi con un presente che richiederebbe non solo memoria, ma capacità di rielaborazione. Martinazzoli, Zaccagnini, Sullo — e persino Forlani — seppero interpretare un tempo, dialogare con una società in movimento, misurarsi con conflitti reali. Non si limitarono a raccontare il passato, ma lo piegarono al futuro.

Martinazzoli e la complessità della transizione

Dipingerlo come il “funzionario del funerale” della Balena Bianca, come fa Rotondi, è una semplificazione che non regge alla prova dei fatti. Martinazzoli comprese meglio di chiunque altro che il proporzionale era morto, che il sistema dei blocchi era saltato e che l’idea di un centro “terzo” avrebbe potuto vivere solo se capace di rinnovare la propria cultura politica. Non bastava cambiare simbolo: serviva un nuovo linguaggio. Quel linguaggio non nacque, ma non per mancanza di visione. Fu il frutto di un contesto in cui la velocità del cambiamento, l’irruzione del maggioritario e l’aggressività comunicativa del berlusconismo fecero a pezzi qualsiasi tentativo di mediazione. Martinazzoli, con il suo passo lento e con il suo umanesimo alto, non poteva incarnare quella “velocità senza cultura” che invece premiò chi, in quegli anni, seppe cavalcare il populismo nascente.

Un presente senza eredi

È qui che la lezione di Martinazzoli diventa attuale. Il problema non è la nostalgia, né il culto sterile di un passato che non torna. Il problema è che la politica italiana di oggi non è stata capace di produrre eredi alla statura di quei giganti. Rievocare Martinazzoli, Zaccagnini o Sullo senza riconoscere questa frattura rischia di trasformare la memoria in un esercizio retorico, utile solo a legittimare un presente debole. Se davvero si vuole onorare quella tradizione, bisognerebbe recuperare il senso del servizio, la centralità della cultura politica, la capacità di leggere i processi storici con onestà intellettuale. Perché, come ricordava lo stesso Martinazzoli, “la politica non è il mestiere di chi vince, ma la fatica di chi serve”. Una lezione che oggi, nel rumore della comunicazione permanente, appare dimenticata.